Medioevo n. 330, Luglio 2024

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

Mens. Anno 28 numero 330 Luglio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ANNIVERSARI SAN SIMEONE L’EREMITA VENUTO DALL’ORIENTE

MEDIOEVO VISIONARIO UMANI EMOSTRE TRANSUMANI ROMA FILIPPO E SANTI IN ARMI FILIPPINO LIPPI LA SPADA DI MATTEO L’ESATTORE

UOMINI E SAPORI IL POTERE DEL CAFFÈ IL NOVELLIERE

DOSSIER LE TERME

AMORE

I «DETTI D’ » DI MONNA BOMBACCAIA

40330 9

771125

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€ 6,50

MEDIOEVO n. 330 LUGLIO 2024 MANTEGNA FILIPPO E FILIPPINO LIPPI ISLAM A BOLOGNA SAN SIMEONE EDUCAZIONE SENTIMENTALE DOSSIER TERME

L’A B RT OL ED O EL GN L’ A ISL AM

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 LUGLIO 2024



SOMMARIO

Luglio 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Il successo (postumo) di una peccatrice di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Sante donne d’autore

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RESTAURI Lussuria, vino e poi la spada

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE MOSTRE

TERME Un bagno di salute

Filippo e Filippino Lippi

Il talento di un frate... e di suo figlio di Claudia La Malfa

26

testi di Didier Boisseuil, Maurizio Tuliani e Duccio Balestracci

26 COSTUME E SOCIETÀ IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/4 Le sagge «sentensie» di profondissima virtú di Corrado Occhipinti Confalonieri

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Amaro e nero, ma pieno di vitalità di Sergio G. Grasso 96

MOSTRE Bologna Quelle rare cose d’Oriente... di Anna Comandini e Mattia Guidetti

STORIE San Simeone Dall’Armenia con fervore di Paolo Golinelli

Dossier

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QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Nazario, Celso e il groviglio delle spade di Paolo Pinti 106 LIBRI Lo Scaffale

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MEDIOEVO n. 330 LUGLIO 2024

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 330 - luglio 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: [email protected] Direttore responsabile Andreas M. Steiner [email protected] Redazione Stefano Mammini [email protected] Lorella Cecilia (ricerca iconografica) [email protected] Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione [email protected]

Hanno collaborato a questo numero: Duccio Balestracci è professore ordinario di storia medievale all’Università degli Studi di Siena. Didier Boisseuil è professore associato di storia medievale all’Università di Tours. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Anna Contadini è professoressa ordinaria di Storia dell’arte islamica presso SOAS University of London. Paolo Golinelli è presidente dell’Associazione Matildica Internazionale. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Mattia Guidetti è professore associato di archeologia e storia dell’arte musulmana all’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Claudia La Malfa è professoressa di storia dell’arte alla American University of Rome. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Maurizio Tuliani è dottore di ricerca in Storia medievale. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: copertina (e pp. 60/61); Electa/Sergio Anelli: p. 5; AKG Images: pp. 50/51, 56 (alto), 99; Fototeca Gilardi: pp. 54 (basso), 72-73, 87; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: p. 63; Album/ Collection J.Vigne/Kharbine-Tapabor: pp. 64-65, 67; Album: pp. 66, 83, 100/101; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Gianni Cigolini: p. 81; Album/Oronoz: pp. 84-85; Gaston Paris/Roger Viollet: p. 102; The Print Collector/Heritage Images: p. 103 (alto); Derby Porcelain Manufactory Engl/Heritage Images: p. 103 (basso); SIPA-USA: p. 104; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: pp. 106-107 – Cortesia Fondazione Musei Civici di Venezia-Studio Esseci: pp. 6/7 – Isabella Stewart Gardner Museum, Boston: p. 8 – Doc. red.: pp. 9, 71, 78-79, 82, 86, 88-91, 94, 108 (alto, a destra, e basso), 109; Giorgio Albertini: pp. 92/93 – Cortesia Friends of Florence: Antonio Quattrone: pp. 12-14 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: Monkeys Video Lab: pp. 26/27, 37; Museo Civico di San Gimignano (SI): p. 28; Pinacoteca dell’Accademia Albertina, Torino: p. 29; Comune di Milano/Beccaria 2012: pp. 30/31; per gentile concessione del Ministero della Cultura. Proprietà dell’Accademia Nazionale dei Lincei: p. 32; Fondazione Giorgio Cini onlus: p. 33; Gabinetto Fotografico delle Gallerie degli Uffizi: pp. 34/35; Venezia, Gallerie dell’Accademia: p. 36 – Cortesia Ufficio Stampa Musei Civici Bologna: pp. 38-49 – Cortesia degli autori: pp. 52 (basso), 53 (alto), 55, 56 (basso), 108 (alto, a sinistra) – Carlo Perini: p. 53 (basso) – Shutterstock: pp. 54 (alto), 74-77, 96-97 – National Gallery of Art, Washington: p. 68 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 80, 98/99 – Stefano Mammini: p. 95 – Bridgeman Images: Luisa Ricciarini: p. 110 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 52.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: [email protected] Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: [email protected]; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: [email protected] e [email protected] Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina L’età dell’oro (particolare), dipinto su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1530 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente itinerari

protagonisti

dossier

Sulle orme di fra Dolcino

Matilde Una donna sul trono d’Inghilterra

La civiltà dell’acqua


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

LUGLIO

Il successo (postumo) di una peccatrice

N

el calendario liturgico, il 22 luglio si ricorda Maria Maddalena, colei che seguí e assistette Gesú fino alla crocifissione e che, per prima, ebbe il privilegio di vederlo dopo la resurrezione. La Chiesa di Roma era solita accomunare nella liturgia tre distinte donne nominate in vari passi nei Vangeli: Maria, sorella di Lazzaro, l’innominata peccatrice «a cui molto è stato perdonato, perché molto ha amato» e Maria di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesú. A trasformare queste tre donne in un’unica Maria furono soprattutto le parole di Gregorio Magno, il quale, nel VI secolo, la identificò nella peccatrice che, nel Vangelo di Luca, deterge i piedi di Gesú con le sue lacrime, dopo essersi pentita di una vita peccaminosa. Alla fine del VI secolo questa donna venne dipinta come una prostituta redenta, fama a cui Jacopo da Varazze, nel Duecento, aggiunse anche una straordinaria ricchezza: lusso e lussuria, infatti, sarebbero andati facilmente di pari passo. La Maddalena, poi, è spesso rappresentata con una chioma fluente, da lei addirittura tinta di biondo – stando a Bernardino da Siena – con lo scopo manifesto di sedurre Gesú! Proprio a quel punto, al culmine della perversione e dell’arroganza, la Maddalena si sarebbe pentita e avrebbe usato i capelli per asciugare i piedi di Cristo. Quanto alle sue reliquie, a differenza della Madonna, il cui corpo era asceso al cielo, della Maddalena si conservavano numerosi (forse troppi) resti mortali che attestano il suo enorme successo presso i fedeli e le fedeli dell’età di Mezzo. La sua lunga e folta capigliatura alimentò decine, centinaia, se non migliaia di reliquie e un suo pettine era esposto a Bath, in Inghilterra. A Roma, nella basilica lateranense si può ammirare un frammento del suo cilicio, mentre a S. Croce in Gerusalemme c’era addirittura la pietra su cui Gesú era seduto quando la perdonò. Di corpi della Maddalena poi ce ne sono almeno due: il primo – originale e riconosciuto, nonché certificato dal papa – esposto dall’XI secolo a Vézelay, in Francia, fu rimpiazzato alla fine del Duecento da un altro – veramente originale e certificato nel 1295 dall’allora papa, Bonifacio VIII –, rinvenuto nientemeno che da Carlo II d’Angiò in persona a seguito di una visione. Il nuovo scheletro diede cosí vita a un pellegrinaggio a SaintMaximin, altra località francese, che andò a oscurare quello precedente di Vézelay, confermando la dura legge delle reliquie. Oltre ai due corpi di cui si è parlato, e sempre in Francia, Aix-en-Provence ne conservava la mascella, donata dallo stesso Carlo II, mentre la chiesa di Abbéville rivendicava il cranio della santa. Il corpo della Maddalena giacerebbe poi a Roma, a Costantinopoli e a Senigallia. Infine è da segnalare che a Saint-Maximin era esposto anche un suo braccio, ma a Colonia, in Germania, se ne potevano trovare due, senza contare le altre cinque braccia esposte in altre chiese, tra cui quella francese di Fécamp.

MEDIOEVO

luglio

La Maddalena bacia i piedi di Gesú, particolare della Crocifissione affrescata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni, a Padova. 1300-1305.

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il medioevo in

rima

agina

Sante donne d’autore MOSTRE • Prima di rientrare al Museo Correr di Venezia, delle cui

raccolte fa parte, è esposto a Piazzola sul Brenta questo prezioso e inedito dipinto su tavola ora assegnato ad Andrea Mantegna

L

a storia dell’arte e quella dell’archeologia, ma anche dell’epigrafia o dell’archivistica, sono segnate da acquisizioni inaspettate, frutto di scoperte compiute all’interno di depositi e magazzini. Una «tradizione» nel cui solco si inserisce la vicenda di una piccola tavola, bisognosa di restauro, alterata dal tempo e con successive ridipinture che ne impedivano leggibilità e valutazione. L’opera era custodita nei depositi del Museo Correr di Venezia, il cui conservatore ha avuto il merito di cogliere, dai pochi tratti penetrabili della offuscata superficie, qualità pittoriche e compositive straordinariamente alte, con dettagli di raffinata qualità esecutiva. Hanno cosí preso avvio lo studio, l’indagine scientifica e poi l’intervento di restauro, fino alla restituzione della Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante, un dipinto a tempera, olio e oro su tavola, databile intorno agli anni fra il 1490 e il 1495. Tema dell’opera è la Sacra Conversazione: la Madonna e il Bambino Gesú in muto dialogo spirituale con san Giovanni Battista fanciullo e sei sante. Dal punto di vista strettamente iconografico, il soggetto sembra legarsi al tema figurativo fiammingo della Virgo inter virgines, vivo soprattutto nelle corti di Francia e Borgogna del XV secolo. Le figure – tutte e solo donne, a eccezione dei due fanciulli – sono disposte a semicerchio, alcune sedute, altre inginocchiate su di un chiaro terreno, al limitare di un retrostante prato e con un profondo paesaggio aperto alle loro spalle. Una scoscesa quinta rocciosa bruno-scura è sulla sinistra, mentre al centro e verso destra serpeggia un largo fiume, oltre al quale piú lontane e chiare quinte montuose fiancheggiano un dosso collinare punteggiato

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di piccoli alberi frondosi, sopra al quale si apre l’unico limitato spazio di cielo. Minuscole figure popolano il paesaggio: sulla cima del rilievo roccioso a sinistra si scorge san Girolamo eremita penitente con il leone; il fiume è guadato da san Cristoforo col piccolo Gesú sulle spalle; sulla opposta riva del fiume san Giorgio a cavallo combatte il drago; non lontane, pure sulla riva, vi sono minuscole figurine di uomini.

Abiti ricchi ed elaborati Delle sei sante, formanti l’insolito sacro gineceo, sono identificabili – le prime a sinistra della Madonna – Elisabetta, anziana e ammantata e Maria Maddalena, coi lunghi capelli biondi. Esse, come la santa Margherita a destra della Vergine, portano i panni all’antica della secolare tradizione figurativa cristiana. Invece, le altre tre ignote figure, una all’estrema destra, altre due verso il margine sinistro, vestono in ricchi ed elaborati abiti contemporanei e sfoggiano ricercate acconciature, secondo la moda delle corti italiane databile precisamente intorno al 1490. Possono esse alludere a «ritratti» di gentildonne realmente esistite, poste a impersonare sante o beate col loro stesso nome? Potrebbe tra esse celarsi la celebre Isabella d’Este, giunta a Mantova giovane sposa del marchese Francesco Gonzaga proprio nel 1490? Molte, dunque, sono le questioni aperte, come quelle relativa all’identità del committente o, piú verosimilmente, «della» committente (forse una illustre dama Gonzaga), o al viaggio Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante, tempera, olio e oro su tavola di Andrea Mantegna. 1490-1495 circa. Venezia, Museo Correr. luglio

MEDIOEVO


MEDIOEVO

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Quel «doppione» al di là dell’oceano La singolare scena sacra, tutta «al femminile», del Museo Correr è pressoché identica a quella visibile di un dipinto oggi conservato nell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (USA), da sempre attribuito al grande Andrea Mantegna – ne reca la firma, anche se ritenuta non originale da alcuni studiosi – e già presente nelle celebri collezioni mantovane dei Gonzaga. Di tale somiglianza le indagini radiologiche e riflettografiche effettuate sul dipinto veneziano hanno dato chiara spiegazione «tecnica», inaspettata e sorprendente: il disegno, rilevato strumentalmente sotto al colore, delinea un tracciato pressoché perfettamente coincidente con il dipinto di Boston. Dunque, entrambi i dipinti sembrano essere stati realizzati a partire dallo stesso cartone, forato per trasferire a spolvero i punti guida del disegno sulle due tavole. È conseguente ritenere che le due opere siano state realizzate dal medesimo atelier – indubbiamente quello mantovano di Andrea Mantegna – a breve distanza di tempo, se non in contemporanea. In alto Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante, tempera su tavola (trasferita su tela montata su masonite) attribuita ad Andrea Mantegna. 1490-1495 circa. Boston, The Isabella Stewart Gardner Museum. A sinistra la sala del museo statunitense in cui è esposto il dipinto.

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DOVE E QUANDO compiuto dal dipinto per giungere in laguna, attraverso quali e quanti passaggi per finire nelle mani dell’insaziabile collezionista Teodoro Correr tra Sette e Ottocento. L’evento espositivo è ora l’occasione per rivelare il misterioso, affascinante dipinto e per tentare le prime risposte alle tante domande poste dalla sua particolare natura, materiale, artistica, iconografica. Accanto al dipinto, un ricco apparato didascalico illustra infatti i dati piú interessanti emersi dalle indagini e dal restauro.

Le prime ipotesi interpretative Il visitatore può addentrarsi nelle prime ipotesi interpretative dei molteplici significati delle raffigurazioni: un percorso che, attorno alla corte mantovana dei Gonzaga, convoca alcune tra le piú celebri figure del Rinascimento. Tra queste Isabella d’Este, tra le piú probabili committenti del singolare «doppio dipinto», in un momento storico – la fine del Quattrocento –, tra i piú complessi, difficili e, nel contempo, luminosi della storia d’Italia. A Piazzola sul Brenta, il piccolo dipinto è of-

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«L’impronta di Andrea Mantegna. Un dipinto riscoperto del Museo Correr di Venezia» Piazzola sul Brenta (Padova), Villa Contarini-Fondazione G.E. Ghirardi fino al 27 ottobre Orario tutti i giorni, mercoledí escluso, 9,30-18,30 Info www.fondazioneghirardi.org ferto anche all’attenzione degli studiosi, che possono tentare di scalfirne i segreti e, soprattutto, indagare la reale natura e misura della forte, personalissima «impronta» che in esso ha lasciato Mantegna: l’ideazione e il disegno, o anche l’esecuzione di sua mano? Anche in attesa di tali «risposte», la mostra rappresenta l’epilogo del primo atto di una vicenda appassionante, che unisce scoperta, indagine, studio, conservazione, restituzione, valorizzazione. Per un’opera ritrovata di straordinaria suggestione, che ha molto, molto da raccontare; iniziando da Piazzola, prima del suo rientro, nel mese di ottobre, nella sua casa veneziana del Museo Correr. (red.)

La facciata di Villa Contarini a Piazzola sul Brenta (Padova), sede della mostra.

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ANTE PRIMA

Al tempo delle dame e degli uomini d’arme

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

T

utto è pronto per la terza edizione della grande rievocazione storica Filetto Rinascimentale, organizzata dall’associazione sarzanese Senza Tempo presieduta da Simone Del Greco, con il patrocinio del comune di Villafranca Lunigiana (Massa-Carrara), che aprirà le porte del borgo murato di Filetto dall’11 al 15 agosto prossimi, con numerose novità e altrettante gradite conferme. Visto il successo delle precedenti edizioni, oltre cinquemila visitatori, sono state confermate la durata dell’evento su cinque giorni e la presenza di conferenze storiche e presentazioni di libri nel Chiostro. Artisti e rievocatori provenienti da tutta Italia e da molti Paesi europei allieteranno il pubblico con un ricco programma di attività didattiche, spettacoli di strada, musica, danza e teatro incentrati sulla vita quotidiana del tardo Medioevo e del Rinascimento lunigianese

In alto e in basso immagini di repertorio di Filetto Rinascimentale, la rievocazione storica in programma nell’omonimo borgo lunigianese dall’11 al 15 agosto.

e italiano in genere. Il visitatore potrà incontrare affascinanti danzatrici, uomini d’arme d’altri tempi, musici itineranti, loschi figuri, arti e mestieri e creature provenienti dalla fantasia rinascimentale. I banchi storici riempiranno le strade del borgo, la cucina tradizionale e piatti provenienti dalla tradizione storica italiana allieteranno i palati dei commensali. Confermati i concerti di musica medievale e rinascimentale, pagan folk, le esibizioni di sbandieratori, i cortei rinascimentali e le dimostrazioni di combattimento. Definite le seguenti conferenze: 11 agosto, ore 18,00, presentazione dell’antologia

Streghe d’Italia, Nps Edizioni; 12 agosto, ore 18,00, professoressa Monica Baldassarri, Il cacao e gli altri… importazione ed evoluzione alimentare nel Rinascimento; 13 agosto, ore 18,00, presentazione del libro di Riccardo Boggi Ciel sereno terra scura. Racconti di segnature, paure e un saggio ritrovato; 14 agosto, ore 18,00, C’era una volta la madia e Chiacchiere di cucina, a cura di Rolando Paganini ed Emilia Petacco; 15 agosto, ore 18,00, presentazione del volume Lunigiana. Il libro, di Federico Palermitano e Maurizio Veroni (Lunigiana World). Per maggiori informazioni e aggiornamenti, si può consultare la pagina Facebook Senza Tempo

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ANTE PRIMA

Lussuria, vino e poi la spada

RESTAURI • L’impresa

di Giuditta, eroina della tradizione biblica, fu eternata da Donatello in un magnifico gruppo bronzeo. Tornato a fare bella mostra di sé in Palazzo Vecchio, a Firenze

U

na delle opere piú note e celebrate di Donatello, il gruppo bronzeo raffigurante Giuditta e Oloferne (1457-1464) torna a farsi ammirare nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio dopo un importante intervento di restauro conservativo. L’opera reca la firma del suo autore incisa nel cuscino sul quale poggiano i due personaggi. Secondo l’ipotesi piú accredita venne commissionata a Donatello da Piero de’ Medici intorno al 1457. Rimase interrotta a causa della partenza per Siena del suo autore, che con alcuni collaboratori la portò a termine tra il 1461 e il 1464, quando fu collocata nel giardino dell’antica residenza

Giuditta e Oloferne (particolare), gruppo scultoreo in bronzo di Donatello. 1457-1464. Firenze, Palazzo Vecchio. L’eroina biblica viene qui rappresentata, per la prima volta, nell’atto di sferrare il colpo mortale ai danni di Oloferne e non dopo averlo già decapitato.

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MEDIOEVO


medicea di via Larga, l’attuale Palazzo Medici Riccardi, a fare da contrappunto al David bronzeo del medesimo scultore che già si trovava nel vicino cortile (oggi nel Museo Nazionale del Bargello).

Una soluzione inedita Secondo l’omonimo libro della Bibbia, la giovane ebrea Giuditta salvò la propria città dall’assedio dell’esercito assiro tagliando la testa al suo generale Oloferne dopo averlo sedotto e fatto ubriacare. All’epoca Giuditta veniva generalmente rappresentata già trionfante sulla testa mozzata del suo nemico. Donatello, con grande originalità, aggiunse la figura di Oloferne, realizzando cosí la prima opera isolata di grandi dimensioni dedicata a questo tema, e colse l’azione nel suo svolgimento, rappresentando l’eroina in una salda e fiera posizione eretta, con il braccio che impugna la spada alzato con impeto e pronto a sferrare il colpo finale. Il corpo esangue del tiranno è incastrato tra le gambe di Giuditta, con gli arti che pendono

A destra veduta d’insieme del gruppo scultoreo restaurato. In basso particolare dell’opera che mostra la firma apposta sul bronzo da Donatello (evidenziata dal riquadro).

vilmente dal basamento bronzeo, dove tre rilievi bacchici rimandano alla sua lussuria. L’opera rileggeva in chiave laica e politica il racconto biblico della giovane eroina, come attestavano due iscrizioni che recava nel basamento lapideo quando si trovava nel giardino mediceo, andate perdute: la prima la qualificava come simbolo del trionfo dell’umiltà sulla superbia e della virtú sulla lussuria; la seconda conteneva la dedica di Piero de’ Medici che le attribuiva la funzione di modello di fortezza e libertà, incitando i cittadini a seguire l’esempio di Giuditta per la difesa della Repubblica fiorentina. Il secondo significato divenne predominante quando nel 1495, a un anno di distanza dalla cacciata dei Medici e dalla proclamazione

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ANTE PRIMA In questa pagina un’altra veduta d’insieme e un particolare del basamento del gruppo di Giuditta e Oloferne.

DOVE E QUANDO

Museo di Palazzo Vecchio Firenze, piazza della Signoria Orario lu-ma-me-ve-sa-do, 9,0019,00; gio, 9,00-14,00 Info tel 055 276 8325; e-mail: biglietteria.palazzovecchio@ comune.fi.it; https://cultura. comune.fi.it

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della nuova Repubblica di ispirazione savonaroliana, la Signoria di Firenze deliberò di confiscare questa opera, insieme ad altre che si trovavano nella residenza medicea, e di trasferirla nella propria sede di governo. Le due epigrafi del basamento vennero

sostituite con quella odierna che reca la data del trasferimento e che ha fatto assurgere il bronzo a simbolo della libertà fiorentina.

Quel «segno mortifero»... La Giuditta fu posta in bella vista sull’arengario del Palazzo della Signoria, dove rimase finché, nel 1504, dovette lasciare il posto al David di Michelangelo, penalizzata dall’esigenza di trovare una collocazione alla nuova scultura e dalle critiche mosse a tale fine da una fazione alla quale pareva sconveniente fare rappresentare la città da una donna che uccide un uomo e che inoltre le attribuiva la colpa di essere un «segno mortifero» portatore di cattiva sorte, perché lí giunta quando Firenze stava perdendo il dominio di Pisa. Due anni piú tardi era di nuovo in piazza, sotto la Loggia della Signoria, ma solo nel 1919, dopo essere stata messa in sicurezza durante la guerra, fu ricollocata, in posizione centrale, sull’arengario di Palazzo Vecchio. Da lí non venne piú rimossa, se non per ragioni di sicurezza durante la seconda guerra mondiale, quando venne anche restaurata da Bruno Bearzi, per conto delle fonderie Marinelli, finché dopo le celebrazioni medicee del 1980, essendo stato constatato l’avanzato degrado del bronzo, fu deciso di sostituirla in esterno con una copia e di trasferirla nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio. In occasione del trasferimento l’opera fu sottoposta, per la prima volta, a un restauro scientifico, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, tra il 1986 e il 1988. Il nuovo restauro del gruppo di Giuditta e Oloferne è stato realizzato grazie al sostegno di Friends of Florence. Il progetto è stato articolato in due fasi, della durata complessiva di circa 10 mesi, con esecuzione delle opere affidata direttamente dal soggetto donatore. (red.) luglio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Le quattro giornate di Mondaino

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

«N

el Rinascimento si costruisce il sapere, nel gioco delle carte il futuro è da vedere» è il claim che fa da filo conduttore alla 35esima edizione del Palio de lo Daino, la manifestazione che animerà il centro storico di Mondaino (Rimini) dal 15 al 18 agosto prossimi. Torna il tradizionale evento che commemora la pace tra le signorie dei Malatesta e dei Montefeltro, siglata nel 1459 a Mondaino: il centro storico del paese sulle verdi colline della Valconca prenderà vita con cortei, spettacoli, animazione itinerante, musica e le disfide tra le quattro Contrade (Borgo, Castello, Contado e Montebello) rigorosamente in abiti d’epoca per contendersi la vittoria finale. Un viaggio a ritroso nel tempo che farà immergere il visitatore nelle suggestive atmosfere medievali: le vie e le piazze si accenderanno con le botteghe storiche delle arti e dei mestieri, musici, sbandieratori, armigeri, falconieri, giullari, figuranti, le proposte culinarie delle Contrade, spettacoli e musica dal vivo. Organizzato dalla Pro Loco di Mondaino presieduta da Fabrizio Ciotti, con la collaborazione del Comune di Mondaino, la compagnia dei Balestrieri e Musici «San Michele», il Palio de lo Daino è una manifestazione storica della Regione Emilia Romagna, inserita nella programmazione del CERS (Consorzio europeo Rievocazioni Storiche). A renderlo possibile è l’impegno di un piccolo, grande esercito di volontari, che si occupano dei vari aspetti dell’evento, dalle scenografie agli allestimenti passando per comunicazione, promozione e messa in scena.

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In alto e in basso immagini di repertorio del Palio de lo Daino, la rassegna organizzata a Mondaino che commemora la pace siglata nel 1459 dalle signorie dei Malatesta e dei Montefeltro.

Li festeggiamenti sono detti per rammemorare lo giorno ne lo quale in un poggetto de lo tereno de Mondaino el conte Federico da Montefeltro se abocò con Sigismondo Malatesta signore de arimino et se faranno feste assai come allhora. Per quattro giorni continovi le contrade de lo Borgo, Castello, Contado et Montebello, se disfideranno ne li giochi et governeranno le taverne per lo conforto de li voti stomaci et de le gole arse. Ne le vie se troveranno pancarelle et botteghe con le cose de tutte le arti e li mestieri et musici, cantori, giocolieri, trampolieri et altri spectaculi daranno alquanta gioia che est cibo giusto et salutare de l’anima et de lo corpo et parte bona de la vita. luglio

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

Mostre MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni, meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al

a cura di Stefano Mammini

essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della

Protagoniste della mostra sono le «felicissime linee nere» dell’incisione veneziana e la rivoluzione mediatica rappresentata dalla nascita e dalla diffusione della stampa. Un fenomeno epocale, che investí l’Europa e trasformò Venezia in un imprescindibile crocevia di esperienze artistiche, generando alcune delle piú affascinanti realizzazioni di tutto il Rinascimento. L’esposizione propone oltre 180 capolavori grafici, circa 90 opere per

europei del XVI secolo che rivoluzionarono il modo stesso di guardare alla realtà: Andrea Mantegna, Albrecht Dürer, Jacopo de’ Barbari, Tiziano e le botteghe dei suoi incisori, Tintoretto, Veronese, Benedetto Montagna, Ugo da Carpi, Domenico Campagnola, Agostino Carracci e Giuseppe Scolari. Il percorso, cronologico-tematico, trasporta i visitatori nell’universo monocromatico della stampa grazie anche a un allestimento che conduce alla scoperta di un’arte raffinata e sorprendente, ricercata da tutti i collezionisti, volano per la diffusione delle piú importanti novità artistiche del tempo, e lo fa svelando i segreti delle sue differenti tecniche e l’articolazione delle botteghe di stampatori dell’epoca. info www.museibassano.it LONDRA MICHELANGELO: LE ULTIME DECADI British Museum fino al 28 luglio

1450), l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante,

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mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: [email protected]; www.museidimaremma.it

sede, appartenenti al ricco corpus grafico delle raccolte civiche di Bassano del Grappa e a rilevanti collezioni pubbliche e private. La selezione comprende capolavori di artisti italiani ed

È dedicata agli ultimi tre decenni della vita e della carriera di Michelangelo Buonarroti – il periodo piú significativo e forse piú impegnativo della vita dell’artista – la mostra proposta dal British Museum, che si concentra su come la sua arte e la sua fede si siano evolute attraverso la comune sfida dell’invecchiamento in un mondo in rapido

BASSANO DEL GRAPPA RINASCIMENTO IN BIANCO E NERO. L’ARTE DELL’INCISIONE A VENEZIA (1494-1615) Bassano del Grappa, Museo Civico fino al 28 luglio

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cambiamento. Per l’occasione, dopo l’intervento di restauro di cui è stata fatta oggetto nel 2018, viene esposta per la prima volta la monumentale Epifania (alta oltre 2 m): databile fra il 1550 e il 1553, è il solo cartone completo sopravvissuto di Michelangelo ed è una delle piú grandi opere rinascimentali su carta. Il disegno è peraltro affiancato al dipinto realizzato sulla sua base dal biografo di Buonarroti, Ascanio Condivi. Tornano in esposizione dopo oltre vent’anni anche molte altre opere della collezione permanente del museo

lungo a Roma, tra il 1532 e il 1538 e affidò la memoria di quegli anni a studi e disegni poi confluiti in due album, che complessivamente riuniscono oltre 150 opere e sono oggi conservati presso il Kupferstichkabinett di Berlino, che li acquisí nel 1886 e nel 1892. Da allora, le due raccolte non sono mai state esposte nella loro interezza e la mostra in programma al Kulturforum è dunque un’occasione da non perdere per ammirare vedute panoramiche e vedute della città, cosí come studi di rovine e sculture. Per motivi di conservazione, la rilegatura del cosiddetto primo album romano, rinnovata negli anni Ottanta, è stata aperta, cosí che 66 pagine del taccuino con le loro 130 pagine disegnate sul recto e sul verso possono essere mostrate al pubblico per la prima volta. Il secondo album, contenente solo venti fogli di Van Heemskerck, viene invece esposto in forma rilegata e le pagine potranno essere sfogliate. info www.biblhertz.it, www.smb.museum

ROMA FILIPPO E FILIPPINO LIPPI. INGEGNO E BIZZARRIE NELL’ARTE DEL RINASCIMENTO Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 25 agosto

Lo straordinario caso di un padre e un figlio, entrambi pittori e disegnatori di eccezionale talento, è protagonista della mostra in programma ai Musei Capitolini, nelle sale di Palazzo Caffarelli. L’esposizione illustra l’epoca d’oro del Rinascimento italiano

tra Firenze e Roma. I dipinti selezionati per l’occasione raccontano del talento di Fra’ Filippo Lippi (1406-1469), uno degli artisti piú importanti della stagione fiorentina di Cosimo de’ Medici, e di quello del figlio Filippino (1457-1504), che eredita dal padre l’ingegno e diventa l’interprete del gusto nella Roma della fine del Quattrocento. Si possono ammirare alcuni capolavori su tavola di Filippo, come la

londinese, fra cui alcuni disegni preparatori per il Giudizio Universale, che illustrano come Michelangelo avesse elaborato una nuova visione di come la forma umana sarebbe stata rimodellata alla fine del mondo. info britishmuseum.org BERLINO IL FASCINO DI ROMA. MAARTEN VAN HEEMSKERCK DISEGNA LA CITTÀ Kulturforum fino al 4 agosto

Il pittore e incisore olandese Maarten van Heemskerck (1498-1574) soggiornò a

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Madonna Trivulzio del Castello Sforzesco di Milano, e opere di Filippino, tra cui l’Annunciazione dei Musei Civici di San Gimignano. info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali selezionati si possono ammirare sete della Sogdiana, ceramiche bianche

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e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre 271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla

città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it BOLOGNA CONOSCENZA E LIBERTÀ. ARTE ISLAMICA AL MUSEO CIVICO MEDIEVALE DI BOLOGNA Museo Civico Medievale fino al 15 settembre

Nata da un progetto di ricerca scientifica tra Musei Civici d’Arte Antica del Settore Musei Civici Bologna e SOAS University of London, l’esposizione intende

valorizzare la collezione di materiali islamici, rari e di altissima qualità, appartenenti al patrimonio del Museo Civico Medievale, e promuovere la riscoperta di vicende e percorsi che, da secoli, costituiscono una parte significativa della storia culturale di Bologna e non solo. Il patrimonio artistico islamico presente in Italia è ricchissimo e tra i piú rilevanti al mondo, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, a testimonianza di un interesse per le civiltà e arti del mondo islamico che si mantiene vivissimo e duraturo dal Quattrocento al Settecento. Bologna, con la sua antica Università fondata nel 1088, partecipa pienamente al clima di apertura internazionale, svolgendo un ruolo fondamentale nell’acquisizione di opere d’arte e nelle relazioni con le terre islamiche tra il XV e il XVIII secolo. Situata al confine tra lo Stato imperiale e quello papale, la città fu in grado non solo di costruire solidi legami commerciali e alleanze geopolitiche, ma divenne un importante centro di mecenatismo artistico e culturale. La cospicua presenza di oggetti islamici nelle collezioni costituite da illustri personaggi bolognesi fin dalla seconda metà del XVIII secolo testimonia ancora oggi, nella loro ricchezza e varietà, una straordinaria lungimiranza e ampiezza di orizzonti culturali. info tel. 051 2193916 oppure

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2193930; e-mail: [email protected]. it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @museiarteanticabologna; X: @MuseiCiviciBolo FANO PIETRO PERUGINO A FANO. PRIMUS PICTOR IN ORBE Museo del Palazzo Malatestiano, sala Morganti fino al 15 settembre

Fano celebra il ritorno in città della Pala di Durante, conosciuta anche come Pala di Fano dipinta da Pietro

Perugino, il piú grande maestro del suo tempo. Per l’occasione, l’opera, che è stata oggetto di un importante intervento di restauro, può essere ammirata, eccezionalmente, ad altezza d’uomo, cosí da poterne apprezzare i dettagli, compreso il retro della tavola centrale, che conserva significative annotazioni. «Primus pictor in orbe» («Primo pittore al mondo»): cosí viene descritto Perugino nel contratto del 1488 che lo portava a lavorare a Fano, dove realizzò due opere eminenti: la Madonna con il bambino in trono e i santi Giovanni Battista, Ludovico di Tolosa, Francesco, Pietro, Paolo e la Maddalena,

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detta Pala di Durante, e l’Annunciazione. Nella mostradossier sono inoltre esposti resoconti dell’eccezionale restauro e confronti fondamentali, grazie a riproduzioni digitali. In particolare, quello con la cosiddetta «pala gemella», realizzata per l’altare maggiore della chiesa degli osservanti di Senigallia. Un confronto accattivante, con elementi didattici e scientifici di straordinaria importanza, che ci portano dentro le grandi botteghe artistiche del tempo. info tel. 0721 887845-847;

e-mail: museocivico@comune. fano.pu.it; museocivico.comune. fano.pu.it

condividere le suggestioni da lui stesso raccontate nell’opera letteraria Il Milione: una fonte inesauribile di ispirazione per studiosi, esploratori, viaggiatori di ogni epoca. Una vita, quella di Marco Polo, che si riverbera nel racconto di una straordinaria geografia storica, culturale, politica e umana dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Asia del Duecento che contribuí a far conoscere. Un patrimonio incredibile di abitudini, usi, costumi e idee che grazie al nostro circolò nella Venezia del XIII secolo quale inestimabile fonte di strategiche informazioni che altri mercanti, dopo di lui, concorsero ad arricchire. Un viaggio nel viaggio, per ricordare gli incontri, reali, inventati, talvolta omessi, con un excursus nei Paesi visitati dall’illustre veneziano e dalla famiglia in oltre vent’anni, attraverso oltre 300 opere provenienti dalle collezioni civiche, dalle maggiori e piú importanti istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei dell’Armenia, Cina, Qatar, per condividere, nel modo piú esaustivo possibile, i mondi di Marco Polo. info www.palazzoducale. visitmuve.it/marcopolo

ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento, focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare

VENEZIA I MONDI DI MARCO POLO. IL VIAGGIO DI UN MERCANTE VENEZIANO DEL DUECENTO Palazzo Ducale fino al 29 settembre

Un uomo, cittadino del mondo in quanto veneziano, grazie al quale l’Oriente è diventato meno lontano e sconosciuto. È questo il tema della mostra organizzata nell’anno in cui ricorrono i 700 anni dalla morte di Marco Polo. Un omaggio all’uomo ma, soprattutto, la volontà di

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AGENDA DEL MESE l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: [email protected]; www.palazzomonferrato.it URBINO FEDERICO BAROCCI URBINO. L’EMOZIONE DELLA PITTURA MODERNA Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 6 ottobre

Pittore, straordinario disegnatore e innovativo incisore, per quasi un secolo Federico Barocci (1533-1612) segna la scena artistica italiana ed europea. Per la città ducale, Federico Barocci ha sempre rappresentato un debito di riconoscenza, perché la sua figura umana e artistica è di straordinaria importanza: con la sua opera egli chiude idealmente la grande stagione

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del Rinascimento urbinate, dominata da artisti quali Piero della Francesca, Bramante e Raffaello, offrendo le primizie di una pittura nuova che caratterizzerà l’età barocca. Non a caso il primo direttore di Palazzo Ducale, Lionello Venturi, aveva in animo di organizzare una mostra monografica, annunciata in occasione dell’apertura del museo nel 1913. L’evento poi non ebbe luogo e solo oggi il museo dedica una esposizione

al maestro marchigiano. Grazie a prestiti che arricchiscono la collezione già molto importante della Galleria Nazionale delle Marche, la mostra raccoglie 76 tra dipinti e disegni di Barocci, illustrando tutte le fasi della sua lunga carriera. info tel. 0722 2760; e-mail: [email protected]; www.gallerianazionalemarche.it

affascinato dai paesaggi e dalle atmosfere di questi luoghi, di cui catturò l’essenza in una celebre serie di acquerelli. Ad attrarre il Norimberghese fu un principato nel quale l’arte e le arti erano coltivate con grande passione e dove il Rinascimento veniva declinato in modo del tutto originale da artisti trentini e da «foresti» che vi giungevano perché attratti dal prestigio e dalle committenze della corte dei principi vescovi e delle élites economiche. Il progetto espositivo fa rivivere quel viaggio e quel magmatico, creativo momento della storia dell’arte di una terra tra i monti. Nell’esposizione, la presenza di Dürer in Trentino è ricordata da disegni, acquerelli – tra cui la magnifica veduta proprio del Castello del Buonconsiglio proveniente dal British Musuem –, incisioni e dipinti: l’arte del grande tedesco non passò inosservata ma stimolò gli artisti qui attivi a ripensare la loro arte. Partendo dallo spettacolare «caso Dürer», il percorso espositivo si estende infatti a

indagare le origini di quel Rinascimento originale, sui generis, che si sviluppa in Trentino tra 1470 e 1530/40. A prendere forma è uno stile nuovo, o meglio, l’insieme di tanti nuovi linguaggi, influenzati da artisti, opere, mode e modi che risalgono dall’Italia alla Germania, alle Fiandre e viceversa. info tel. 0461 233770; e-mail: [email protected]; www.buonconsiglio.it TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 20 ottobre

L’esposizione racconta la storia dei Longobardi in Trentino attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della «principessa» e del «principe» di Civezzano riuniti per la prima volta. Una mostra nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, che custodisce molti manufatti di provenienza trentina e con la quale si è mantenuto e consolidato negli anni un

TRENTO DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL TRENTINO Castello del Buonconsiglio fino al 13 ottobre (dal 6 luglio)

Il Castello del Buonconsiglio ha scelto Albrecht Dürer come protagonista della mostra simbolo del centenario del museo, nato nel 1924. Il grande pittore e incisore scoprí Trento e il Trentino negli anni 1494-95, rimanendo luglio

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rapporto di grande collaborazione. La rassegna offre un’occasione per riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia «barbarica». info tel. 0461 233770; e-mail: [email protected]; www.buonconsiglio.it PARIGI IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La

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mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (1185-1240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo

d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno

caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

Appuntamenti ALESSANDRIA FESTIVAL INTERNAZIONALE DEI TEMPLARI-IV EDIZIONE «LE DONNE DEL TEMPIO» 5-6 luglio

Torna l’appuntamento con il Festival internazionale dei Templari, rassegna che gode del patrocinio dell’Università del Piemonte Orientale. In piazza Santa Maria di Castello i mondi degli storici e degli artisti si comporranno in due serate-spettacolo (venerdí 5 luglio, Le sorores del Tempio, e, sabato 6 luglio, Maria e i Templari) volte a raccontare a un largo pubblico come i frati cavalieri piú affascinanti del Medioevo incrociarono i volti delle donne. Sabato 6 luglio, alle 16,15, nella Sala del Museo Civico di Palazzo Cuttica è inoltre previsto l’incontro con i relatori che partecipano al Festival. info e-mail: festivaldeitemplari@ gmail.com; Facebook e Instagram @festivaldeitemplari

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MEDIOEVO NASCOSTO

LUOGHI · STORIE · ITINERARI PARTE II: ITALIA CENTRO-MERIDIONALE

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ontinua il viaggio alla scoperta del «Medioevo nascosto» italiano, di quello straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». All’ombra dei grandi monumenti medievali, dei celeberrimi TO 2 OS I/ SC AR NA ER gioielli delle città d’arte conosciuti in O N V OE TI DI I I ME OV tutto il mondo, la nostra Penisola è U N infatti costellata da centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni, protagonisti della nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio di MEDIOEVO vederli da vicino. La seconda tappa si snoda attraverso le regioni del LUOGHI STORIE Meridione e le isole del Paese, dal ITINERARI PARTE II: ITALIA CEN TRO-MERIDIONAL E Lazio alla Sardegna. Da Sutri, tappa obbligata per i pellegrini diretti a Roma, ma anche luogo di sosta e soggiorno di re, papi e imperatori, si scende fino all’estrema punta dello stivale, nel borgo calabrese di Pentedattilo, la città delle «cinque dita», arroccata sul Monte Calvario e che fu a lungo un importante presidio strategico. E da dove ci si può idealmente imbarcare per raggiungere la vicina Sicilia e poi risalire fino alle coste sarde. Un percorso ricco di storie e di sorprese, nel quale brillano come gemme di una collana luoghi che hanno contribuito a scrivere la storia del millennio medievale e che di quella stagione conservano testimonianze illustri. RI. PARTE II ITALIA

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Una veduta del borgo di Pacentro (L’Aquila), sul quale domina il profilo turrito del castello, costruito nel punto piú alto dell’abitato.

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N°62 Maggio/Giu gno 2024 Rivista

Bimestrale

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mostre filippo e filippino lippi

Il talento di un frate... e di suo figlio

di Claudia La Malfa

Tutte le foto che corredano l’articolo documentano l’allestimento e le opere della mostra «Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento», in corso a Roma, fino al 25 agosto, presso i Musei Capitolini.

Nella Firenze del Quattrocento, Filippo Lippi si mette in luce come uno degli ingegni piú brillanti e originali del suo tempo. Ma, accanto all’estro artistico, fu in lui irrefrenabile la passione per le donne e, sebbene avesse preso i voti, divenne padre di Filippino, che del genitore ereditò un’altrettanto spiccata vena creativa. Una «coincidenza» davvero singolare, ora rievocata nella mostra allestita a Roma, negli spazi di Palazzo Caffarelli, in Campidoglio 26

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mostre filippo e filippino lippi

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ilippo Lippi nasce a Firenze nel 1406 da una famiglia di povere origini. Secondo Giorgio Vasari, che nel 1550 e nel 1568 scrive una Vita dell’artista, Filippo perde la madre alla nascita e il padre all’età di due anni. In seguito della morte dei genitori, Filippo Lippi viene cresciuto da una zia che a causa della povertà lo affida all’età di otto anni insieme con il fratello al convento dei Carmelitani di Firenze. All’età di quindici anni, Filippo e il fratello diventano dapprima novizi e poi, nel 1421, frati: «questi sono e’ frati che ànno avute le vestimenta per l’anno 1421 (...) frater Nicholaus Lippi lettor (...) frater Johannes Thomasi (...) frater Philippus Tomasi». Attraverso il racconto e la ricostruzione della vita e dell’attività di Filippo Lippi che diede Giorgio Vasari emergono la natura e lo spirito di un artista inquieto e ironico che

fa proprie e sviluppa alcune tra le idee piú rivoluzionarie di uno dei passaggi epocali della produzione artistica dell’età pre-moderna. Secondo Vasari, Lippi si sfratò una volta trovata la strada della pittura: «per il che sentitosi lodar tanto per il grido d’ognuno, animosamente si cavò l’abito, d’età d’anni XVII». In realtà Lippi rimase frate carmelitano fino alla morte: si firma «frate filippo dipi[n]tore in fiore[z]a» nella lettera indirizzata il 20 luglio 1457 a Giovanni de’ Medici, e firma con la dicitura «Frater Philippus P[inxit]» l’Adorazione del Bambino del 1459 circa, e «Frate Filippo» è il modo in cui viene detto nei contratti e nei pagamenti dei cicli dipinti a Prato e poi a Spoleto poco prima della sua morte. Le fonti però ricostruiscono aspetti del carattere di Lippi in contrasto con i comportamenti attesi

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Nella pagina accanto, dall’alto Angelo annunciante e Vergine annunciata, tempera grassa su tavola di Filippino Lippi. 1483-1484. San Gimignano, Museo Civico di San Gimignano.

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In questa pagina, da sinistra Sant’Agostino e Sant’Ambrogio e San Gregorio e San Girolamo, tempera su tavola di Filippo Lippi, 1435-1437. Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina.

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mostre filippo e filippino lippi dalla vita monacale, soprattutto per via di una passione sfrenata del pittore per le donne. Vasari alimenta la fama della sua incapacità di resistere alla seduzione femminile narrando le difficoltà avute da Cosimo de’ Medici per convincere il frate a lasciar perdere le donne e concentrarsi sul lavoro: «Dicesi ch’era tanto venereo, che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe; e non potendo, per via di mezzi, ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva. Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all’opere prese da lui quando era di questo umore, poco o nulla attendeva». Di questa sua passione però non

dovette risentirne la sua attività che fu molto prolifica e segnata da successi che gli sono valsi committenze importanti di alti rappresentanti della società fiorentina dell’epoca. Due sue opere, secondo Vasari, furono spedite al pontefice Eugenio IV a Roma, e qualche anno piú tardi la famiglia de’ Medici mandò come dono al Re di Napoli e d’Aragona una pala d’altare molto apprezzata. Nel 1437 Lippi dipinge la straordinaria Madonna di Tarquinia per l’arcivescovo Giovanni Vitelleschi e l’Altare Barbadori per Santo Spirito. Nel 1439 dà inizio alla monumentale Incoronazione Maringhi e agli inizi degli anni Quaranta per Carlo Marsuppini realizza l’Incoronazione della

Vergine, oggi nelle Collezioni Vaticane. Nel 1452 promette al mercante fiorentino Lionardo Bartolini di portare a termine un tondo con una «certa storia (...) della Vergine Maria», e intorno al 1459 dipinge la magnifica Adorazione del Bambino per la cappella di palazzo Medici. Filippo Lippi muore a Spoleto nel 1469 dopo essere entrato con Gentile da Fabriano, Beato Angelico e Domenico Veneziano nell’empireo dei pittori piú notevoli del Quattrocento fiorentino, apprezzato da committenti e artisti della sua generazione e della generazione successiva, ammirato dai viaggiatori del Settecento e dalla critica d’arte dell’Ottocento. Il suo ruolo nell’ar-

Madonna con Bambino, Santi e giovani Carmelitani (Madonna Trivulzio o Madonna dell’Umiltà), tempera su tavola (trasportata su tela applicata su tela di panforte, tavola a spioventi) di Filippo Lippi. Fine degli anni Venti del Quattrocento. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.

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te del Rinascimento si deve anche all’aver coltivato nella sua bottega il talento raffinato di Sandro Botticelli (1445-1510) e quello alquanto eccentrico di suo figlio Filippino Lippi.

Realismo magico

Secondo Giorgio Vasari la grande fortuna di Lippi fu la formazione nel convento fiorentino di Santa Maria del Carmine, non tanto perché, pur nato in una famiglia di estrazione povera e dunque estraneo alla possibilità di ricevere un’educazione, poté accedere agli insegnamenti della grammatica, della matematica e della religione, quando perché i suoi maestri in convento notando il talento del ragazzo nel disegno gli diedero la possibilità di coltivarlo: «Nel sopra detto convento del Carmine, dove standosi, quanto era destro et ingenioso nelle azzioni di mano, tanto era nella erudizione delle lettere grosso e male atto ad imparare, onde non volle applicarvi lo ingegno mai,

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nè averle per amiche. (...) Essendo tenuto con gli altri in noviziato e sotto la disciplina del maestro della gramatica (...) in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl’altri. Onde il priore si risolvette a dargli ogni commodità et agio d’imparare a dipignere». Nelle opere giovanili di Filippo Lippi, l’accento posto dal pittore sulla raffigurazione reale di volti, figure e cose è legato all’attento studio dell’invenzione narrativa di Masaccio. Il giovane artista coglie la capacità di Masaccio di rendere vive e drammatiche le scene attraverso la varietà delle azioni e la naturalezza dei gesti. Lippi, tuttavia, non ha contezza delle regole matematiche della prospettiva e della proporzione padroneggiate da Masaccio negli affreschi della Cappella Brancacci. Per il giovane artista lo spazio tridimensionale è ottenuto empiricamente grazie all’illusione creata da volumi costruiti attraverso gli effetti della luce sul colore. La Madonna Trivulzio, o Madonna dell’Umiltà, di Lippi è un’opera non datata, ma probabilmente eseguita intorno alla fine degli anni Venti del Quattrocento, nel primo periodo di attività del pittore, quando l’artista risiede ancora in convento (vedi foto in queste pagine). Il dipinto è realizzato a tempera su tavola (in seguito all’intervento di restauro trasportato su tela) e raffigura la Vergine Maria con il Bambino tra santi e giovani carmelitani. Il formato del dipinto è inusuale perché risulta essere un rettangolo terminante nella parte superiore in un timpano ribassato, e per questa sua forma può forse ritenersi opera realizzata per la devozione privata del convento stesso. Ma la presenza di Sant’Alberto con il giglio bianco in mano, protettore dei carmelitani, sulla destra del dipinto, e di Sant’Angelo, raffigurato con il segno del suo martirio – la spada che gli fende la testa –, potrebbe indicare un’origi-

naria destinazione dell’opera nella cappella di Sant’Alberto o in quella di Sant’Angelo all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine. Sulla sinistra del dipinto è rappresentata Sant’Angela, una delle prime sante dell’ordine della Vergine Maria del Monte Carmelo. Il realismo magico che pervade questo dipinto si coglie anche in altre opere giovanili di Filippo Lippi. Nella Madonna col Bambino, Angeli, Santi e il donatore della collezione Cini di Venezia il pittore raffigura personaggi e azioni con vivace verosimiglianza; eppure, cala la naturalezza dei gesti e delle pose in un’aura religiosa che traspira dai volti delle figure sacre e specialmente da quello della Vergine (vedi foto a p. 33). Alla fase giovanile, in cui Lippi sperimenta con le pose, le proporzioni e gli scorci delle figure nello spazio, si deve far risalire anche il frammento raffigurante la Madonna con Bambino che oggi è conservata presso la Cassa di Risparmio di Vicenza. Nell’opera, la Vergine sostiene il Bambino con una mano mentre con l’altra lo cinge gentilmente. Il bambino a sua volta accarezza il mento della madre e con quel gesto la porge all’adorazione dell’osservatore. Il pittore coglie e raffigura un gesto quotidiano ma capace di condensare una dimensione monumentale nella forza dei volumi tridimensionali delle figure che si stagliano l’una sull’altra formando diversi piani di distanza dall’osservatore.

La prospettiva lineare

Nel corso degli anni Trenta, Filippo Lippi elabora uno stile maturo in cui le idee delle prime opere risentono delle novità introdotte a Firenze da Donatello (1386-1466), che tra il 1433 e il 1439 realizza la Cantoria del Duomo, e da Brunelleschi (1377-1446), che nel 1434 ha terminato la grandiosa cupola del Duomo cui ha dato inizio nel

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mostre filippo e filippino lippi 1419. Filippo Lippi elabora in pittura molte delle idee a cui guarda anche il trattatista, artista e umanista Leon Battista Alberti (1404-1472). Nei dipinti di Lippi degli anni Trenta la prospettiva, che aveva visto nell’opera di Masaccio e che aveva sperimentato empiricamente nelle sue prove giovanili, diventa geometrica, i colori virano su tonalità piú drammatiche, le vesti raffigurano il movimento dell’aria che le fa vibrare di luce e di grazia con toni cangianti costruiti da ombre scure e il ritratto si perfeziona in soluzioni che, prendendo le mosse dagli accenti caricaturali tipici della sua prima fase pittorica, si sviluppano grazie a una concezione monumentale di ispirazione classica. Questa fase è annunciata nelle due monumentali tavole oggi conservate presso l’Accademia Albertina di Torino che raffigurano i quattro padri della chiesa, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio e San Gregorio e San Girolamo, dipinti intorno al 1435-1437 (vedi foto a p. 29). Tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta la cerchia di committenti di Filippo Lippi si allarga al di fuori dei conventi carmelitani e il pittore si apre al mondo dei notabili fiorentini e dei mercanti. Nel 1437 Lippi riceve la commissione per l’esecuzione della Pala con la Vergine, il Bambino e Santi per la Cappella Barbadori a Santo Spirito e nel 1439 quella del canonico e procuratore di Sant’Ambrogio, Francesco Maringhi, cui dipinge l’Incoronazione della Vergine (terminata nel 1447) che gli valse, come narra il Vasari, l’attenzione di Cosimo de’ Medici (1389-1464).

Il soggiorno a Prato

Al fertile periodo di attività fiorentina fa seguito la chiamata da parte dei notabili di Prato per dipingere ad affresco la cappella maggiore della Badia della città. Al pittore sono offerti 1200 ducati per l’impresa che include oltre agli affre-

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A sinistra Figura di giovane seduto che legge, disegno a punta metallica, biacca su carta preparata con gouache color salmone di Filippino Lippi. 1481 circa. Roma, Istituto Centrale per la Grafica. Nella pagina accanto Madonna col Bambino, Angeli, Santi e il donatore, tempera e oro su tavola di Filippo Lippi. 1432 circa. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Galleria di Palazzo Cini.

schi con le storie di Santo Stefano, patrono di Prato, e di San Giovanni Battista, protettore di Firenze, anche i disegni per la vetrata che viene realizzata a Firenze dal maestro Lorenzo da Pelago. Lippi risiede a Prato dal 1452 al 1465 poiché i lavori sono spesso interrotti a causa della penuria economica dei finanziatori dell’impresa. In questo tempo il pittore però non si fa mancare il lavoro, che gli viene commissionato dai personaggi di spicco della città. Negli anni di Prato Lippi si innamora di una giovanetta del monastero agostiniano di Santa Margherita. La relazione dovette essere intensa, tanto che per un periodo lei abbandona il monastero e fugge con il pittore. Dalla coppia nasce un figlio, Filippino Lippi, che da piccino vive nella casa del padre a Prato e poi lo segue a Spoleto quando il pittore nel 1467 riceve

l’incarico per gli affreschi da eseguire nella tribuna della cattedrale. Giorgio Vasari offre una dettagliata ricostruzione dell’avventura licenziosa di Filippo Lippi con la giovane e della segreta nascita del figlio: «Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell’altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi. Fra’ Filippo dato l’occhio alla Lucrezia, che cosí era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra luglio

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mostre filippo e filippino lippi Donna, onorata reliquia di quel castello. Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai piú allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore».

Gli ultimi lavori

Negli anni di Prato Filippo Lippi realizza vari lavori per commesse fiorentine o legate alla famiglia de’ Medici. Probabilmente nel 1453 completa l’Adorazione del Bambino con Maddalena, San Girolamo e Sant’Ilarione (la Pala Annalena) per il monastero di Annalena di Firenze, fondato in quell’anno. Il dipinto segna la creazione di una nuova iconografia destinata ad avere grande fortuna nella vita del Lippi e nella pittura delle generazioni successive che guardano al Lippi. Al termine dell’impresa di Prato, Filippo Lippi riceve una chiamata dalla Cattedrale di Spoleto per realizzare la decorazione della tribuna maggiore. Nel 1466 Filippo Lippi è documentato per una breve visita a Spoleto dove probabilmente prende accordi con l’Opera del Duomo e con il cardinale Bernardo Eboli per la decorazione dell’abside con le Storie della Vergine. Il pittore si trasferisce solo nel 1467, portando con sé sia il figlio Filippino sia Fra’ Diamante, che lo aveva aiutato nella realizzazione degli affreschi di Prato. I lavori procedono speditamente e il ciclo di affreschi è quasi terminato quando Filippo Lippi muore improvvisamente il 10 ottobre 1469. Per le fasi conclusive dell’impresa di Spoleto, successive al decesso dell’artista, nel libro dei conti della cattedrale sono documentati i pagamenti finali dati al giovane figlio e a Fra’ Diamante.

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Figlio di Filippo Lippi e di Lucrezia Buti, nato a Prato probabilmente nel 1457, Filippino cresce a stretto contatto con il padre mentre questi è impegnato nell’esecuzione degli affreschi di Prato e di Spoleto. Nel 1472, qualche anno dopo la morte del padre, Filippino, probabilmente quindicenne, è documentato come «dipintore con Sandro di Botticella» a Firenze, dove probabilmente completò l’apprendistato e iniziò a lavorare. La relazione fra Botticelli e i due Lippi è singolare. Botticelli aveva svolto il suo discepolato presso Filippo Lippi, da cui aveva appreso i rudimenti di una pittura di linea e colori, e un’idea narrativa fatta di figure in pose piene di grazia. A sua volta Filippino, figlio di Filippo, si forma nella bottega di Botticelli, di lui poco piú anziano, dove acquisisce anche parte degli elementi stilistici del padre. Questa triplice confluenza spiega una certa uniformità di linguaggio stilistico che si manifesta nella pit-

tura fiorentina del Quattrocento, pur nella peculiarità espressiva di ciascuno di questi artisti dalla personalità unica. L’attribuzione delle opere giovanili di Filippino e l’individuazione della sua mano in opere dapprima attribuite al suo maestro Botticelli è questione complicata e molto dibattuta all’inizio di questo secolo quando Bernard Berenson (1865-1959) per primo assegnò a un anonimo «Amico di Sandro», ovvero di Botticelli, un certo numero di opere in seguito riconosciute al giovane Lippi. Tra esse vi è la serie di pannelli raffiguranti le Storie di Ester, di Virginia e di Lucrezia di Filippino Lippi, sparse in molti musei del mondo, di cui Botticelli esegue una versione tarda tra il 1496 e il 1504. Nella Morte di Lucrezia Romana, esposta in mostra (vedi foto in basso, sulle due pagine), Filippino caratterizza la composizione dal punto di vista stilistico con una pittura fatta di figure dalle for-

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me nettamente definite, da una stesura del colore a macchia e da architetture realizzate con linee pure in candide e astratte geometrie architettoniche risolte dalla contrapposizione di luce e ombra.

I tondi di San Gimignano

L’8 febbraio 1483 Filippino riceve dai signori di San Gimignano una commissione per la realizzazione di un’Annunciazione della Vergine da raffigurare in due grandi tondi ciascuno di cm 127 di diametro per il palazzo comunale cittadino (vedi foto a p. 28). La commessa viene realizzata dal pittore con grande ingegno dal punto di vista compositivo e stilistico. Filippo coniuga in quest’opera la forza iconica di ciascuna figura, che occupa da sola uno dei due tondi con un afflato emotivo che unisce l’Angelo annunziante alla Vergine annunziata. La particolare forza magnetica dei due dipinti è il frutto di un sofisticato uso della prospettiva, del colore e della luce. Ciascun dipin-

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to infatti è chiuso nel suo spazio prospettico: a terra il pavimento in pietra serena a riquadri in cotto disegna in ciascun tondo linee prospettiche convergenti verso un punto di fuga posto al suo centro. E tuttavia un gradino formato da tre quarti di un segmento del cerchio in basso costituisce la linea ideale che unisce i due spazi, dipinti separatamente, in un unico spazio raffigurante la camera in cui ha luogo l’annunciazione divina. Anche i colori delle due figure si compenetrano e completano vicendevolmente: la veste del colore del ghiaccio dell’Angelo, in cui i toni cangianti sono il riflesso dei rossi e dei grigi della stanza, si delinea nel panneggio blu notte che cinge il corpo della Vergine e cosí pure il colore quasi etereo del rosso panneggio dell’Angelo si traspone in un tono di rosso denso e sanguigno nel panneggio della Madonna. Attraverso questo sapiente uso degli strumenti del pittore, Filippino Lippi riesce a dare una dimensione

spirituale allo spazio mondano di questa Annunciazione. Nel 1487 Filippino riceve la chiamata da parte di un potente amico di Lorenzo il Magnifico, Filippo Strozzi (1428-1491). Questi vuole che Lippi dipinga ad affresco la sua cappella privata nella chiesa di Santa Maria Novella accanto al coro. Il documento firmato tra lo Strozzi e Filippino Lippi il 21 aprile 1487 specifica che «nel cielo abbia a essere quattro fighure o dottori o vangeliste o altri, a elezione del detto Strozzo (...) E promette lo detto Filippo di Filippo al detto Strozzo di lavorarla in frescho». Nel contratto le due parti firmano per 300 fiorini e Filippino è tenuto a consegnare il lavoro il «primo di marzo 1489» corretto in 1490. Pochi mesi dopo, tuttavia, Lorenzo il Magnifico suggerisce il nome di Filippino Lippi all’amico napoletano cardinal Oliviero Carafa (1430-1511) che vuole fare Morte di Lucrezia Romana, olio su tavola di Filippino Lippi. 1475-1480 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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Dove e quando

In alto la sala di Palazzo Caffarelli nella quale è stata esposta la riproduzione fotografica dei dipinti realizzati da Filippino Lippi per la Cappella Carafa, nella basilica di S. Maria sopra Minerva, a Roma. 1489-1493. Nella pagina accanto Studio per Assunzione della Vergine Carafa, disegno a penna, inchiostro seppia e marrone su carta avorio, vergata senza filigrana di Filippino Lippi. 1488. Venezia, Gallerie dell’Accademia.

decorare una cappella di sua proprietà nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma.

Un ciclo grandioso

Filippino rimane a Roma fino al 1493 per completare il grande ciclo costituito dalla decorazione ad affresco della volta, delle tre pareti della cappella e dell’adiacente cubicolo, dove sulla volta gli affreschi sono inquadrati da stucchi. La cappella è dedicata alla Vergine e a San Tommaso protettore dei domenicani, il cui ordine religioso ha sede dal Quattrocento a Roma nella chiesa e convento di Santa Maria

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sopra Minerva. Sulla parete dell’altàre sono raffigurate l’Assunzione della Vergine e l’Annunciazione. Sulla parete destra, nella lunetta in alto, vi è il Miracolo del Crocifisso secondo l’episodio della vita di Tommaso in cui il Crocifisso gli parla dicendogli: «Bene scripsisti de me Thoma». Sotto il riquadro della lunetta, Filippino rappresenta, in un potente impianto architettonico, la scena allegorica della Disputa di San Tommaso in cattedra. La composizione è centrata intorno a un edificio classicheggiante in cui San Tommaso, seduto, schiaccia con un piede un barbaro, il cui aspetto è preso dalle statue classiche delle collezioni di antichità visibili a Roma alla fine del Quattrocento oppure dall’Arco di Costantino. Filippino termina l’esecuzione della decorazione della Cappella Carafa, probabilmente con l’aiuto di Raffaellino del Garbo (1466-1527), il 25 marzo 1493, quando la cappella viene inaugurata alla presenza del pontefice Alessandro VI (1492-1503). L’esperienza romana segna un’ulteriore tappa nell’invenzio-

«Filippo e Filippino Lippi. Ingegno e bizzarrie nell’arte del Rinascimento» Roma, Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 25 agosto Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.sovraintendenzaroma.it; www.zetema.it Catalogo a cura di Claudia La Malfa, con un contributo di Claudio Parisi Presicce, Gangemi Editore ne figurativa di Filippino, sia nelle opere su tavola che negli affreschi della Cappella Strozzi, cui lavora al suo ritorno a Firenze, fino al 1502. Filippino Lippi muore improvvisamente all’età di 47 anni il 18 aprile 1504 e Vasari lo ricorda con un tributo di profondo apprezzamento: «Onde essendo sempre stato cortese, affabile e gentile, fu pianto da tutti coloro che l’avevano conosciuto, e particolarmente dalla gioventù di questa sua nobile città». F Il testo dell’articolo è tratto dai saggi riuniti nel catalogo della mostra e viene qui pubblicato per gentile concessione dell’autrice e dell’editore.

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Quelle rare cose d’Oriente... di Anna Contadini e Mattia Guidetti

«Conoscenza e Libertà» è il titolo di una mostra al Museo Civico Medievale di Bologna. Un’occasione per richiamare l’attenzione del pubblico sul prezioso nucleo di opere d’arte islamica e sull’influenza che quegli oggetti hanno esercitato sulla produzione artistica e sul pensiero occidentali

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ologna fu per secoli un importante snodo per la circolazione di oggetti d’arte del mondo islamico e centro di attrazione per mercanti, collezionisti, artisti e studiosi. La sua Università, nota in tutto il mondo, offriva un valido supporto allo studio del patrimonio culturale del mondo islamico nelle sue diverse declinazioni – filosofia, medicina e tecnologia – e favorendo allo stesso tempo l’apprendimento di lingue orientali come l’ebraico e l’arabo. Grazie alla sua fitta rete di legami familiari e politici internazionali e al suo ruolo di centro culturale, Bologna svolse la funzione di conduttore, da cui oggetti d’arte e idee ebbero modo di diffondersi dal mondo islamico al di là dei confini dell’Italia, verso Ungheria, Germania, Francia e ben oltre. Un ruolo centrale per il côté intellettuale fu rivestito dall’Università, sviluppata al di là delle tradizionali attività di insegnamento e grazie all’appoggio delle autorità ecclesiastiche. Già dalla metà dell’XI secolo diverse testimonianze documentano l’insegnamento a Bologna di discipline come la giurisprudenza, la retorica e la medicina. Questo impulso spontaneo si trasformò in un’istituzione, lo Studium, attorno alla fine del secolo e all’inizio del successivo. La data 1088 per la fondazione dell’Università di Bologna come istituzione appare piú come una convenzione stabilita nel XIX secolo che come una evidenza storica documentata dalle fonti. Gli studenti erano suddivisi in diverse uniNella pagina accanto bruciaprofumi in ottone traforato con tracce di agemina d’argento e altri manufatti selezionati per la mostra «Conoscenza e Libertà», in corso a Bologna, nel Museo Civico Medievale.

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versitates, regolate da statuti; il primo che conosciamo, quello della universitas scholarium iuristarum, risalente al 1252, fu approvato da papa Innocenzo IV l’anno successivo. L’università, una delle prime in Europa, se non la prima in assoluto, distinse Bologna dalle altre città italiane, contribuendo al suo sviluppo come centro celebre e potente, anche sul piano economico, sul confine tra i possedimenti imperiali e quelli della Chiesa. L’identità bolognese, secondo Lorenzo Paolini, poggiava «sull’autonomia politica, sul tentativo di costruire

anche una autonomia ecclesiastica, sulla legittimità e sulla libertà dello Studio, attraverso un accordo istituzionale».

Cattedre e traduzioni

All’inizio del XIV secolo, grazie all’impulso di papa Clemente V (1264-1314) e del filosofo e teologo Raimondo Lullo (1232-1315), il Concile de Vienne dispose la fondazione delle cattedre di greco, ebraico, caldeo (siriaco) e arabo in quattro università: Bologna, Oxford, Parigi e Salamanca, le uniche esistenti in Europa. Oltre all’insegnamento, le università avrebbero dovuto realizzare traduzioni latine di testi redatti nelle diverse lingue di cui detenevano le cattedre. Le spese sarebbero state sostenute dalla curia pontificia, dal re di Francia (per Parigi) e dalla tassazione ecclesiastica (per Oxford, Bologna e Salamanca). Non conosciamo quando questo decreto venne applicato, ma è evidente che nel XV secolo l’insegnamento a Bologna si era esteso a tutte le discipline scientifiche e umanistiche riconosciute e che lo studio delle lingue, arabo compreso, proseguiva. Il primo stimolo allo studio dell’arabo venne dai Domenicani, non solo per motivi di proselitismo, ma soprattutto per sostenere in modo piú efficace le dispute teologiche. Le ricerche sullo sviluppo dell’Università tra il XV e la prima metà del XVI secolo hanno dimostrato che Bologna era la piú importante in Italia, e forse in Europa e che esercitava una forte attrazione su studiosi, Vaso in pasta di vetro turchese con foglia d’oro applicata a stencil, da Venezia o dalla Turchia ottomana. XVII-XIX sec. Già collezione Cospi (?). Bologna, Museo Civico Medievale. La decorazione è a motivi floreali e vegetali.

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mostre bologna essere studiate e analizzate nelle università europee, tra cui Bologna. Anche prima della costituzione dello Studium era esistita una tradizione di insegnamento della medicina nelle case dei medici, e in seguito, a partire dal XII secolo, anche lo Studium iniziò a offrire un’istruzione nelle arti e nella medicina, favorito alla fine del secolo da medici che, formati alla Schola Medica Salernitana, trasferirono a Bologna le loro conoscenze. Spinti da questa offerta gli studenti di discipline scientifiche accorsero a Bologna da tutta l’Europa. I testi di studio spaziavano dai classici come Aristotele, Galeno, Dioscoride e Ippocrate, i cui contributi erano stati trasmessi attraverso l’arabo, ad al-Razi (Rhazes o Rhasis in Occidente), Ibn Sina (Avicenna) e Ibn Rushd (Avveroe), a cui si aggiunsero le opere di medici italiani, come Mondino de’ Liuzzi (1270-1326 circa).

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Un testo fondamentale

studenti, umanisti e artisti, interessati non solo ai testi classici mediati attraverso la lingua araba, ma anche agli scritti scientifici e filosofici direttamente redatti in arabo, che avrebbero influenzato il pensiero europeo per secoli. Tutte queste persone costituirono dunque un bacino di conoscenza a cui i collezionisti poterono attingere liberamente. Versioni arabe di testi greci

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Uno scorcio del cortile di Palazzo Ghisilardi, sede del Museo Civico Medievale di Bologna.

di filosofia e scienza, insieme a volumi originali dei maggiori studiosi persiani e arabi erano stati tradotti in latino tra l’XI e il XIII secolo sia a Montecassino che presso la Schola Medica Salernitana. Furono queste traduzioni a

La traduzione di testi scientifici e filosofici greci in arabo era avvenuta soprattutto nel IX e X secolo, a Bagdad. Una figura centrale per questa attività fu quella di Hunayn ibn Ishaq (808-873 circa), medico e prolifico autore di testi, oltre che celebre traduttore. Possiamo considerare esemplare la vicenda di una delle opere da lui tradotte, l’Erbario di Dioscoride, botanico del I secolo d.C. Tradotto in arabo col titolo di Kitab al-hasha’ish fi hayula ‘ilaj al-tibb (Libro dei semplici, sulle sostanze usate per la medicina) venne successivamente volto in latino dall’arabo tra l’XI e il XIII secolo nell’Italia meridionale con il titolo di De materia medica, con cui è noto nel mondo occidentale. Questo testo sarebbe divenuto un elemento fondamentale nell’impostazione dello studio della botanica in Europa. Hunayn ibn Ishaq traduceva dal greco in siriaco e da questo in arabo; solo nel caso luglio

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di Dioscoride tradusse direttamente in arabo con l’aiuto di Istifan ibn Basil (o Stephanos), un suo collaboratore greco. Secondo Ibn Juljul al-Andalusi, studioso e medico di Cordova vissuto nel X secolo, quando Istifan ibn Basil non conosceva la parola araba corrispondente al termine greco, la translitterava in greco, nella speranza che successivamente un altro studioso la trovasse. I diversi processi di collaborazione sono documentati nella traduzione araba di Dioscoride, ora parte delle Collezioni Speciali della Biblioteca Universitaria di Bologna (vedi a box a p. 42).

Veduta d’insieme e particolare della decorazione di una brocca in ceramica dipinta a fiori sotto invetriatura, da Iznik (Turchia ottomana). Metà del XVI sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

Un oggetto vivo

Lo straordinario manoscritto miniato, datato al 1245 d.C. (anno 642 del calendario islamico, n.d.r.), fa parte del gruppo di opere riportate in patria da Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), probabilmente da Istanbul. Rappresenta uno dei massimi risultati di una fiorente tradizione libraria, frutto di una cultura profondamente colta, testimoniata da una produzione di testi già a partire dall’inizio del VIII secolo, il periodo a cui risalgono le prime pergamene superstiti del Corano, e prosegue con Corani e volumi di letteratura, scienza e filosofia scritti su carta almeno a partire dalla fine del X secolo. Sui suoi margini sono riportati appunti e commenti di mani diverse, in inchiostri diversi e spesso in lingue diverse, tra cui il turco. Sono la prova che questo manoscritto è una sorta di oggetto vivo, studiato e annotato da generazioni di studiosi nel corso della sua storia. Anche gli artisti furono coinvolti in questo processo: spesso lungo i margini del volume sono dipinte varietà diverse della stessa

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pianta, un esempio significativo della vivace interazione tra arte e scienza (vedi sempre a p. 42). Dopo che il manoscritto giunse in Italia all’inizio del XVIII secolo, questa trasmissione del sapere continuò anche in altra forma. Alcune pitture furono bucherellate lungo i bordi per fornire modelli, che forse vennero utilizzati su erbari europei, la cui produzione era allora in ripresa, o piuttosto continuarono la grande tradizione botanica bolognese. Alcuni studiosi arabi fecero la

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mostre bologna Le iscrizioni

Importanza della calligrafia e pseudoscritture su oggetti italiani Per i musulmani il sacro testo del Corano fu rivelato al profeta Maometto in arabo. L’arabo, dunque, in quanto lingua della divina rivelazione, e con esso la scrittura araba, occupa un posto speciale all’interno della cultura e dell’arte del mondo islamico. L’arte della calligrafia, proprio perché legata al testo sacro, è considerata la piú nobile tra le arti, al punto da divenire onnipresente. Troviamo infatti iscrizioni non solo sugli edifici, ma su oggetti di ogni tipo, di contenuto religioso, ma anche proverbi, formule augurali per il sovrano e versi. I vari tipi di caratteri subirono nel tempo una evoluzione, ma spesso vennero usati insieme. Le iscrizioni incorporano non di rado elementi artistici e in tal modo divengono piú che semplici strumenti per la trasmissione di un testo, assumendo un valore estetico. Gli elementi decorativi possono essere combinati con le iscrizioni in modi cosí complessi che a volte risulta difficile separarli; nel cufico intrecciato, per esempio, le lettere comprendono motivi a nodi. Possono essere presenti elementi decisamente figurativi, per esempio le estremità di alcune lettere con teste umane. Le inscrizioni possono essere formule beneaugurali o benedizioni, ma anche veri e propri testi poetici, come nel caso della scatola porta penne. Gli elementi della calligrafia araba ebbero un forte impatto sull’arte italiana e europea già in età medievale. Ne troviamo esempi fin dal XII secolo nelle pitture murali di alcune chiese, oltre che in dipinti di artisti italiani da Cimabue a Giotto, da Luca Signorelli a Gentile da Fabriano e molti altri ancora. Agli occhi degli Europei gli elementi calligrafici dell’arabo e dell’ebraico, in rapporto con la Terra Santa, finivano con l’acquisire una valenza spirituale, e a questo si univa il loro forte impatto decorativo. Questo gusto è esemplificato dalla Matricola dei Merciai e dalla tavola del Gerini che contengono entrambe caratteri pseudocufici e pseudoebraici. Anche se le iscrizioni arabe sugli oggetti hanno iniziato ad essere riconosciute e decifrate dalla fine del XVI secolo, solo nel XIX sono divenute oggetto dello studio sistematico di specialisti, come nel caso dell’italiano Michelangelo Lanci.

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Nella pagina accanto bruciaprofumi sferico in ottone traforato con tracce di agemina d’argento, dalla Siria. XV sec. Bologna, Museo Civico Medievale. Il manufatto è dotato di un meccanismo interno, ben conservato, che permetteva di farlo rotolare senza far fuoriuscire la sostanza – ambra grigia, muschio o legno di aloe – e un dispositivo cardanico assicurava che il recipiente rimanesse sempre orizzontale. Venivano fatti correre sui tappeti, lasciando uscire il fumo attraverso i tanti piccoli fori nel metallo. In basso codici manoscritti del De materia medica (1245; in alto) e dell’Erbario (1568) di Dioscoride. Bologna, Biblioteca Universitaria.

spola tra Bologna, Modena e Ferrara. Tra questi possiamo ricordare al-Hasan ibn Muhammad alWazzan al-Zayati, noto anche come Leo Africanus, nato a Granada e morto a Tunisi (1550 circa). Durante il suo soggiorno a Bologna scrisse un dizionario medico arabo-ebraico-latino, datato 1524 d.C. (anno 930 del calendario islamico, n.d.r.), di cui rimane solo la parte in arabo. Questa impresa trilingue è il frutto di un progetto culturale umanistico al quale diede il proprio contributo anche un medico e umanista ebreo, Jacob Mantino Ben Samuel (m. 1549), che aveva studiato all’Università di Bologna e che aveva tradotto dall’ebraico in latino il primo libro del Qanun fi tibb (Canone di medicina) di Avicenna. Una simile attività culturale, che coinvolgeva una rete di corrispondenti attraverso un intero continente, fu la prosecuzione di una lunga tradizione di ricerca intellettuale e di traduzione. Oltre all’attività di traduzione svolta nell’XI e XII secolo da Montecassino e dalla Schola Medica Salernitana, un importante progetto era stato intrapreso anche a Toledo, in Spagna, nel XII secolo, con la realizzazione di versioni latine di importanti testi arabi di filosofia, luglio

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medicina e scienza in cui erano coinvolti studiosi ebrei e cristiani.

Filosofia e scienza

Nello stesso periodo i Normanni commissionarono in Sicilia traduzioni dal greco in latino, dall’arabo in latino o dall’arabo in greco e di lí in latino, e contributi significativi furono forniti anche dalle comunità ebraiche di Bologna e Ferrara, che fiorirono tra il Duecento e il Quattrocento, la seconda in particolare grazie alla protezione degli Estensi. Il loro interesse per le prime opere filosofiche e scientifiche in arabo è documentato da traduzioni in ebraico e dalle versioni giudaico-arabe conservate alla Biblioteca Universitaria di Bologna e alla Biblioteca Estense di Modena. A Modena, ad esempio, si trovano le traduzioni in ebraico del Canone di Avicenna e di altri volumi, molto probabilmente prodotti nel 1487 (Alfa R.8.8), e il commento al trattato sulla Mete-

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mostre bologna Veduta d’insieme e particolare della decorazione di una fiala in vetro blu decorato a smalti policromi e oro, dalla Siria. XIII sec. Bologna, Museo Civico Medievale. Nella pagina accanto il Museo Cospiano in una incisione di Lorenzo Legati. Ferdinando Cospi (1606-1686) raccolse nella sua dimora un museo di cose di natura e manufatti, simile alle Wünderkammern, le Camere delle meraviglie transalpine, che nel 1660 donò alla sua città, Bologna.

arte e alto artigianato

La circolazione e la trasmissione di motivi Centrale per il rapporto artistico tra Italia e mondo islamico è stato lo scambio continuo, l’adozione e la trasformazione di modelli stilistici e di ornamenti. Nel Rinascimento ciò comportò lo svincolamento del motivo decorativo che veniva ricombinato in modo creativo e, passo ulteriore e piú radicale, applicato ad altri materiali. La migrazione di elementi decorativi e motivi calligrafici portò alla creazione di un repertorio decorativo condiviso. Sia le tipologie di oggetti che i motivi ornamentali potevano essere interpretati in modo creativo, ottenendo nuove variazioni sul tema e attirando nuovi acquirenti. La lavorazione islamica di metalli ageminati era molto apprezzata, e oggetti in metallo di produzione islamica per il mercato italiano o europeo presentano ornati che contengono motivi occidentali tra cui stemmi di gusto europeo. Inoltre, nel XVI secolo, in Italia fu adottata la tecnica dell’agemina per realizzare oggetti che riprendevano modelli islamici. La lavorazione italiana dei metalli manterrà forme e decorazioni di stile islamico, ma con una progressiva scomparsa dell’agemina in argento. Il Museo Civico Medievale conserva anche alcuni magnifici esempi delle piú raffinate ceramiche ottomane di Iznik, databili al XVI secolo. Le due brocche esposte in mostra sono decorate una con spirali e una con fiori, motivi che ispireranno industrie ceramiche del nostro paese.

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reologia di Aristotele di Averroè (Alfa Q.6.16) e il testo filosofico di al-Ghazali, databile alla fine del Quattrocento (Alfa N.8.14). Un esempio di eccezionale impatto è la traduzione ebraica del Canone di medicina di Avicenna, illustrato e sontuosamente miniato, conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna. Questo manoscritto su pergamena, databile alla prima metà del Quattrocento, è la traduzione completa dall’arabo in ebraico dei cinque libri del Canone. La traduzione fu realizzata entro il 1279, probabilmente a Roma, da un famoso traduttore, Natan ben Eli‘ezer ha-Me’ati. Secondo Giuliano Tamani, sia il committente che l’amanuense/i di questo codice erano ebrei, a differenza dei miniatori; una pratica frequente tra i banchieri e medici ebrei che facevano illustrare i loro libri nelle botteghe di artisti cristiani. Le miniature sono state attribuite a diversi centri artistici, tra cui anche Bologna, e a diversi artisti,

l’ipotesi piú recente è a favore di Giovanni di Nicolò Bellini, un artista veneziano che lavorò per la comunità ebraica di Bologna.

Cose meravigliose

Oggetti islamici erano presenti in gran numero nelle collezioni costituite da studiosi bolognesi co-

e tecniche decorativi Nel museo si trovano anche alcuni raffinatissimi esemplari di ceramiche spagnole-islamiche, realizzate tra il XV e il XVIII secolo, e decorate a lustro, una tecnica che nasce nel mondo islamico attorno al IX secolo. Diffusa attraverso la Spagna e l’Italia, la maiolica a lustro fu prodotta, per esempio, dalle botteghe di Gubbio. Il lustro è ottenuto da una miscela di ossidi applicati a pennello sullo smalto. Attraverso un processo chimico che si attiva in fornace durante un particolare tipo di cottura, gli ossidi assumono un aspetto risplendente. In Spagna il successo di questo tipo di ceramiche fu tale che la manifattura di Manises, nel territorio di Valencia, raggiunse alti livelli di produzione, esportando i suoi prodotti in Italia e in altri Paesi europei. La produzione di vetri smaltati e dorati inizia nel mondo islamico alla fine del XII secolo. Oro e smalti erano applicati a pennello e l’oggetto veniva sottoposto a una nuova cottura per fissarli. Attorno al XIII secolo smalti di diversi colori cominciano ad essere combinati sullo stesso oggetto, come nel caso della preziosa bottiglia in vetro blu prodotta in Siria. Dal mondo islamico questa tecnica passò poi a Murano. Gli altri due oggetti in vetro esposti sono raffinati esempi di vasi databili tra il XVII-XIX secolo, uno in vetro viola trasparente, l’altro in vetro opaco turchese. Entrambi sono decorati in foglia d’oro utilizzando la tecnica dello stencil.

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me Ferdinando Cospi nel Seicento, Luigi Marsili nel Settecento e Pelagio Palagi nell’Ottocento. La collezione Cospi seguí il modello della cinquecentesca «diversità di cose naturali» di Ulisse Aldrovandi, una raccolta pioieristica molto piú unitaria e focalizzata di una semplice Wunderkammer o «cabinet of curiosities», in cui specie diverse di piante e animali sono affiancate ad oggetti di provenienze e tipologie estremamente diverse. Anche la collezione Cospi supera il normale concetto di Wunderkammer. In quello che può essere considerato un precoce esempio di museo pubblico, il collezionista offre una visione del mondo attraverso una raccolta che mette insieme oggetti, animali e codici, estendendosi dall’antichità classica al mondo islamico e al «Nuovo Mondo». Nelle varie edizioni della sua guida del Museo Cospiano Lorenzo Legati descrive la collezione come una vera raccolta di meraviglie e mette in luce la sua sensibilità antiquariale seicentesca affermando che oggetti come la brocca in metallo ageminata in argento (vedi foto a p. 46) dimostrano «l’eccellenza dell’ingegno, e la finezza dell’arte». Anna Contadini

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mostre bologna

IL COLLEZIONISMO DI ARTE ISLAMICA A BOLOGNA

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a collezione di arte islamica del Museo Civico Medievale è il risultato di molteplici donazioni confluite nelle istituzioni pubbliche di Bologna. Documenti archivistici, inventari e cataloghi permettono di ricostruire la presenza a Bologna di manufatti provenienti dal mondo islamico. Le prime attestazioni sicure datano al tardo Cinquecento, sebbene sia possibile che oggetti di arte islamica fossero a Bologna a partire dal XIII secolo. I metalli sono tra gli oggetti piú conosciuti della collezione del Museo Civico Medievale. Mai pubblicati in maniera completa in una monografia, i metalli sono stati inclusi in diversi studi, a partire da quelli di David Storm Rice (1913-1962). In verità, diversi oggetti in metallo presenti a Bologna erano stati menzionati nella pubblicazione dedicata alle iscrizioni arabo-islamiche di Michelangelo Lanci (1779-1867). I metalli sono stati in seguito inclusi nella sezione dedicata all’arte del volume Gli Arabi in Italia (di Francesco Gabrielli e Umberto Scerrato, Garzanti Scheiwiller 1985). Alcuni degli oggetti bolognesi furono quindi esposti nella mostra di arte islamica di Venezia del 1993, le voci del cui catalogo rimangono pubblicazioni di riferimento. Ciò che è preservato nel Museo Civico Medievale di Bologna rappresenta solo una parte dell’arte islamica transitata a

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Oggetti come la brocca Cospi, alcuni dei quali rari o unici nel loro genere, insieme a manoscritti e monete provenienti dal mondo islamico e alla documentazione relativa, costituiscono a Bologna un nucleo straordinario e di grande entità Sulle due pagine la vetrina in cui sono esposti la brocca Cospi (nella pagina accanto) e un vaso biansato da Manises (regione di Valencia, Spagna; a destra). La prima, in ottone ageminato in argento, è di produzione siriana o egiziana e si data al XIII sec.; il secondo, in ceramica decorata a lustro monocromo, risale alla seconda metà del XV sec.

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mostre bologna Le armi

Il fascino della tecnica e del bello Il Museo Civico Medievale di Bologna possiede numerose armi di provenienza islamica, come quelle scelte per la mostra, esempi altissimi di produzione ottomana. Provengono in parte dalle collezioni Cospi e Palagi, ma soprattutto dalla raccolta Marsili. Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730), capitano da mar, combattè contro gli Ottomani e riportò a Bologna preziosi manoscritti arabi, persiani e turchi ottomani e molti altri oggetti, tra cui una collezione di armi (spade, scimitarre, archi e frecce, faretre, elmi e armi da fuoco). Esse sono testimonianza delle varie attività militari nel Mediterraneo contro gli Ottomani. Gli scudi in giunchi, noti come kalkan, erano considerati dagli Europei simboli dell’esercito ottomano, tanto che molti furono raccolti come trofei sui campi di battaglia. Una serie di dipinti celebra le imprese diplomatiche di Marsili, che nel dipinto esposto è ritratto mentre negozia con gli Ottomani per la definizione dei confini, in un momento in cui i traffici e gli scambi culturali erano molto intensi. La complessità dei rapporti commerciali tra l’Italia e il mondo ottomano è rappresentata dalla scimitarra con l’iscrizione GENOA sulla lama. Realizzata in Italia e esportata da Genova nel mondo ottomano, la lama venne montata su un’elsa orientale e rientrò in Italia con Marsili. L’elmo metallico con iscrizioni arabe, tardo mamelucco o dell’inizio dell’era ottomana, è uno dei rari esempi esistenti di un tipo che, attraverso le guerre, venne adottato in Occidente. A differenza della maniera occidentale, gli archi e frecce erano trasportati con faretre sospese alla vita, il che permetteva maggior libertà di movimento al cavaliere. Le faretre in velluto e gli archi dipinti e dorati, ornati di materiali preziosi come fili d’argento o pittura in oro, e di complesse decorazioni e vernici trasparenti colorate, hanno un fascino estetico notevole. Incarnano perfettamente il gusto dell’epoca per le «cose turche». Armi di provenienza islamica facenti parte delle collezioni del Museo Civico Medievale di Bologna. Si riconoscono un elmo e scimitarre con i loro foderi.

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Bologna. Non tutti i singoli oggetti e non tutte le collezioni, infatti, furono destinati a fruizione pubblica. Ciononostante, proprio sotto l’aspetto della fruizione, il caso bolognese differisce da molte altre città italiane ed europee. A inizio Seicento, Ulisse Aldrovandi (1522-1605) lasciò il proprio Museo al Senato di Bologna e, a partire dal 1617, gli oggetti furono trasferiti in sei stanze del Palazzo Pubblico della città. Un custode permetteva agli studiosi o ai curiosi l’accesso alla collezione. Al Museo Aldrovandi si aggiunse nel 1657 quello Cospiano, ricco di manufatti dal mondo islamico, consolidando quindi l’aspetto «pubblico» delle collezioni bolognesi, caratteristica che fu poi confermata da altri nuclei aggiunti tramite lasciti nei decenni successivi.

Estro collezionistico

Questo aspetto si lega a una seconda peculiarità delle collezioni bolognesi, che è l’assenza di un collezionismo di tipo dinastico o di corte, come, ad esempio, quello dei Medici a Firenze o degli Este a Modena. Alla famiglia Bentivoglio, al governo della città da circa il 1402 al 1506, sono assegnati soltanto due oggetti provenienti dal mondo islamico e in entrambi i casi l’attribuzione è ottocentesca e non confermata da altre evidenze. I protagonisti del collezionismo bolognese sono invece nobili e uomini di chiesa dediti allo studio di scienza, arte e storia antiquaria. Con sfumature diverse da caso a caso, queste collezioni erano legate all’estro del singolo collezionista e non servivano a magnificare ed ostentare il potere di una casata che regnava sulla città. La disponibilità economica dei collezionisti e il loro raggio d’azione erano ridotti rispetto a quelli all’origine dei grandi tesori ecclesiastici e di corte. Questa considerazione vale però per i soli oggetti luglio

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Veduta d’insieme e particolare della decorazione di un candeliere in ottone ageminato in oro e argento, dal Sud-Est anatolico. Tardo XIII-XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.

acquisiti direttamente dai luoghi di produzione nel Sei e Settecento, perché, invece - e il caso del Museo Cospiano ne è un’ottima dimostrazione - i musei e i gabinetti di studio potevano avvalersi anche di oggetti di ottima manifattura e di una certa antichità già presenti in Europa e acquisiti da altre collezioni o sul mercato dell’arte. Vi è, infine, un’ultima considerazione che è utile a introdurre gli oggetti di arte islamica a Bologna. Le singole collezioni includevano anche manoscritti. La ricchezza e varietà dei manoscritti della collezione Marsili è sicuramente un’eccezione tanto da distinguersi a livello europeo, ma anche in altri casi manoscritti e carte dal mondo islamico accompagnavano i manufatti. Fu solo nella riconfigurazione dei musei avvenuta nell’Ottocento che si operò una separazione netta tra libri e oggetti d’arte, con i primi destinati alla Biblioteca Universitaria o a quella dell’Archiginnasio e i secondi al Museo Civico. F Mattia Guidetti

Dove e quando «Conoscenza e Libertà. Arte Islamica al Museo Civico Medievale di Bologna» Bologna, Museo Civico Medievale fino al 15 settembre Orario ma-gio, 10,00-14,00; me-ve, 14,0019,00; sa-do e festivi, 10,00-19,00; chiuso lunedí non festivi Info tel. 051 2193.916-930; e-mail: [email protected]; www.museibologna.it Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram e TikTok: @museiarteanticabologna; X: @MuseiCiviciBolo Catalogo Sagep Editori (dal catalogo sono tratti i testi dell’articolo, che appaiono per gentile concessione dell’editore)

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Dall’Armenia con fervore di Paolo Golinelli

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Mille anni fa, quella di san Simeone fu la seconda canonizzazione della storia: una decisione assunta da papa Benedetto VIII e alla quale diede un contributo decisivo la testimonianza del marchese Bonifacio di Canossa. Alla cui corte mantovana il santo si era spesso recato, come ascoltato consigliere

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eremita Simeone aveva terminato il suo lungo pellegrinaggio da pochi anni, quando morí a San Benedetto Po, nel contado mantovano, il 26 luglio 1016. Secondo la sua Vita, scritta da un anonimo poco dopo la sua morte, era nato in Armenia da genitori nobili, che avevano sognato per lui una vita militare, ma, come il mitico sant’Alessio (il patrizio romano, vissuto fra il IV e il V secolo, che, secondo la leggenda, sarebbe fuggito da Roma la sera delle nozze, rinunciando alla vita mondana e stabilendosi a Edessa, n.d.r.), Simeone lasciò la sposa intatta e si fece prima monaco basiliano, poi eremita sul monte Ararat, quindi pellegrino a Gerusalemme. Da lí passò a Roma, dove fu accusato di essere un eretico, per il suo modo di pregare all’orientale; quindi riprese il suo pellegrinaggio lungo la via Francigena, analiticamente descritta nelle sue tappe (Pisa, Lucca, Berceto, Piacenza, Pa-

Una delle scene appartenenti al ciclo con episodi della vita di san Simeone affrescato nel chiostro a lui intitolato nel monastero di Polirone a San Benedetto Po (Mantova). Seconda metà del XVI sec.

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storie san simeone Novgorod

Stoccolma

Riga

Amburgo Brema

Northampton Canterbury

Oceano Atlantico

Santiago de Compostela Saragozza

Danzica

Wilsnack

Londra Brugge Gent Colonia

Calais

Lubecca

Lipsia

Friburgo

Kiev Breslavia

Ypres

Vierzehnheiligen Cracovia Francoforte Norimberga Parigi Provins Eichstätt Chartres Bar-sur-Aube Vienna Troyes Tours Offenburg Vezelay EUROPA Ginevra Lione Bordeaux Milano Verona Venezia Tersatto Le Puy Abbazia di Piacenza Abbazia di Polirone Tolosa Novalesa Genova Lucca Beaucaire Firenze Marsiglia Siena Monte Montserrat Sant'Angelo Roma Barcellona Barletta

Mar Nero

ARMENIA

ASIA

Costantinopoli

Bari

Sardegna

Efeso

Seleucia

Tripoli

Sicilia

AFRICA

Mar Mediterraneo

Antiochia

Damasco

Candia

Gerusalemme Alessandria

In alto nella cartina sono indicati: il presunto percorso del viaggio di Simeone dall’Armenia in Occidente (linea tratteggiata); il pellegrinaggio a Santiago de Compostela (in rosso); il successivo rientro in Italia, fino all’abbazia di Polirone a San Benedetto Po (in blu). A destra mappa del monastero di Polirone. 1678. Mantova, Archivio di Stato.

via, Vercelli, Torino, la Val di Susa, l’Aquitania, la Guascogna e infine la Galizia) alla volta di Santiago de Compostela. Nel viaggio di ritorno verso l’Italia, sostò a Tours, per venerare il sepolcro di san Martino. Infine, dopo aver percorso l’Italia settentrionale, scelse di fermarsi nel monastero di San Bene-

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detto tra il Po e il suo ramo Lirone (da cui «Polirone»), fondato nel 1007 dal marchese Tedaldo di Canossa, e «ornato degnamente dagli onesti costumi dei monaci». Qui l’accolse l’abate Venerando, che fece costruire per lui una cella, non lontano dal cenobio, cosí da poter continuare la sua vita eremitica,

secondo la formula, allora prevalente, dell’eremitismo prope monasterium (vicino al monastero). Anche da eremita, Simeone non cessò le sue peregrinazioni, soprattutto per via d’acqua, nei dintorni, e spesso si recava a Mantova, presso il marchese Bonifacio di Canossa, che qui aveva costruito luglio

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il suo palazzo (probabilmente nel luogo in cui fu poi edificato il palazzo ducale dei Gonzaga). Simeone esercitò cosí, con Bonifacio, quella che spesso fu la funzione degli eremiti: ovvero l’agire come consiglieri dei potenti.

La risposta del papa

Lo stretto legame tra lui e il marchese di Canossa è testimoniato proprio dalla sua canonizzazione. Bonifacio fece venire a San Benedetto Po uno scrittore, che raccolse le testimonianze che poteva avere sulla vita del santo, le sue virtú e i suoi miracoli, e lo inviò con questo scritto a Roma, dal papa Benedetto VIII (1012-1024). Questi, esaminato lo scritto, rispose a Bonifacio con la lettera di canonizzazione, giunta a noi in un manoscritto dell’XI secolo: «Benedetto vescovo, servo dei servi di Dio, a Bonifacio, per grazia divina inclito marchese, salute e apostolica benedizione. Avete chiesto il nostro giudizio, come era degno fare, se vi sia permesso di costruire una chiesa in onore di san Simeone, da poco santificato. (...) Se davvero risplende di miracoli, come il vostro uomo ci ha raccontato, costruite una chiesa, collocatevelo dentro e presso di lui fate consacrare un altare, nel quale vengano riposte le reliquie degli antichi santi insieme col corpo del nostro signore Gesú Cristo, e cosí infine si celebrino i divini misteri. Trattatelo come un santo e il Santo dei santi vi renda grazie» (Mantova, Bibl. Com., ms. n. 208). Questo uomo, al quale si fa riferimento, era l’agiografo che aveva scritto la Vita del santo e l’aveva portata a Roma per ottenere l’approvazione del culto. Egli infatti aggiunge ai dodici miracoli del testo originario un tredicesimo miIn alto pagine di un codice dell’Armeniade di Raffaele da Piacenza, ms. 192. XVI sec. Mantova, Biblioteca Comunale Teresiana. A destra un’immagine dell’ultima piena del Po a San Benedetto Po, nel 2000.

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La vita del santo in dieci libri Raffaele Fornari da Piacenza, professo a Polirone nel 1477, fu un poeta umanista, che cercò di imitare i classici. Il suo poema Armeniade, edito a Cremona nel 1518, assieme alle Scaenae e agli Epigrammata, ricostruisce in forma epica la vita di san Simeone, arricchendola di particolari inventati dall’autore o giuntigli dalla tradizione presente a San Benedetto Po. Il I libro narra la nascita del santo nella città di Artaxata, capitale dell’Armenia, e fornisce i nomi dei genitori: Ettore e Felicita, e della sposa, Stella; il II presenta il miracolo del cervo, che si offrí in cibo agli eremiti bloccati dalla neve; il III racconta del pellegrinaggio a Gerusalemme e della liberazione dei sette indemoniati; il IV il pellegrinaggio a Roma e l’accusa al santo di essere un eretico; il V continua sui pellegrinaggi di Simeone; nel VI vi sono la tempesta sedata e altri miracoli; nel VII una lunga disquisizione geografica sull’Armenia; nell’VIII altri miracoli del santo; nel IX una breve storia del monastero di Polirone, ove il pellegrino armeno decise di fermarsi; nel X l’accoglienza dell’abate Venerando e le virtú del santo eremita. L’Armeniade è testimonianza eloquente del perdurare del culto di san Simeone anche nel Cinquecento, come testimoniano anche gli affreschi del chiostro intitolato al santo.


storie san simeone

Una veduta panoramica del monastero di Polirone e, a sinistra, uno scorcio del chiostro di S. Simeone. Il complesso monastico sorse nel 1007 per volontà del marchese Tedaldo di Canossa.

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Appuntamento a San Benedetto Po Il millenario della canonizzazione di san Simeone sarà celebrato a San Benedetto Po (Mantova), nel Festival Matildico Internazionale, dal 20 al 22 settembre 2024, intitolato «I santi dei Canossa. Nel millenario della canonizzazione di san Simeone armeno». Sono previsti: una rievocazione storica, un convegno, una mostra e altre manifestazioni popolari, a cura dell’Associazione Matildica Internazionale. Info e programma: www.associazionematildicainternazionale.it

Miniatura raffigurante il marchese Bonifacio di Canossa, da un codice della Vita Mathildis, scritta intorno al 1115 dal monaco e cronista Donizone di Canossa, ms. Vat. Lat. 4922. XII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

racolo, avvenuto «Al tempo in cui, per canonizzare il glorioso corpo di san Simeone ci recammo alla sede apostolica». E questa è la prima volta che nei testi medievali compare la parola latina «canonizare».

Una scelta politica

Quella di san Simeone è una delle prime canonizzazioni pontificie. La prima fu quella di sant’Ulrico, vescovo di Augusta, nel 993 (era morto vent’anni prima), ma era stata deliberata da papa Giovanni XV nel corso di un concilio, ed era un modo, come ha scritto André Vauchez, del papa «per affermare la sua autorità su tutta la Chiesa occidentale». La specificità di quella di san Simeone, che è quindi la seconda, è che a richiederla fu il marchese di Canossa, Bonifacio. Quest’ultimo fu un personaggio duro e violento, non si peritò di invadere chiese delle quali si accaparrava le decime e fu tanto forte che sposò in seconde nozze Beatrice di Lorena, appartenente alla famiglia imperiale (era stata adottata dalla zia Gisella, moglie di Corrado II il Salico, diventando cosí sorella di Enrico III, e zia di Enrico IV). Favorito dagli imperatori Enrico II e Corrado II, che l’aveva nominato marchese di Toscana, Bonifacio di Canossa fu avvertito come una minaccia da parte dell’imperatore Enrico III, proprio per la sua potenza. Cionondimeno, Bonifacio fu amico di santi del suo tempo, e favorí l’avvio della riforma ecclesiastica. Oltre a san Simeone, fece giungere a capo della Badia Fiorentina Maurilio di Rouen, portatore della

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storie san simeone A sinistra un’altra scena delle storie di san Simeone affrescate nel chiostro a lui intitolato a San Benedetto Po. Seconda metà del XVI sec. In basso un commento al Vangelo di Matteo contenuto nel piú antico codice miniato polironiano, ms. 342. 1077 circa. Mantova, Biblioteca Comunale. Sulla destra, l’abate Pietro, prima dell’annessione del monastero a Cluny.

spiritualità di Fruttuaria, ma, soprattutto, fu legato nell’ultima parte della sua vita a san Guido di Pomposa, al quale si affidò come suo confessore, lasciandosi flagellare da lui in riparazione dei suoi peccati, e accettando di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, per riparare alla sua simonia. La morte lo colse, sotto forma di una freccia avvelenata che lo colpí durante una battuta di caccia a San Martino dell’Argine, tra Mantova e Cremona, il 6 maggio 1052. San Guido era morto da sei anni, e probabilmente il marchese di Canossa aveva troppo atteso l’esecuzione della penitenza inflittagli. Il legame dei potenti con i santi è un indicatore delle contraddizioni degli uomini del Medioevo, pronti a sfruttare la credibilità presso i cristiani che loro veniva da personaggi e monasteri di elevata spiritualità per il loro dominio, ma essi stessi soggetti all’ideologia cristiana dominante, per cui avevano la necessità di sottoporsi a questi personaggi e a questi enti ecclesiastici, cercando il sostegno e la forza che veniva dalla fede. F

Da leggere André Vauchez, La santità nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1989 Margherita Giuliana Bertolini, Studi canossiani, a cura di Ovidio Capitani e Paolo Golinelli, Pàtron, Bologna 2004 Paolo Golinelli, Santi e culti dell’anno Mille, Mursia, Milano 2017

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il novelliere di giovanni sercambi/4

Le sagge «sentensie» di profondissima

virtú

di Corrado Occhipinti Confalonieri

In piú di una delle sue novelle Giovanni Sercambi non si sottrae all’incombenza di affrontare il tema del sesso. E lo fa, senza alcun imbarazzo, affidandosi all’esperienza di una nobildonna pisana


L’età dell’oro, dipinto su tavola di Lucas Cranach il Vecchio. 1530 circa. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. Il titolo dell’opera è espresso dalla rappresentazione idilliaca di uomini e donne che danzano pacificamente attorno a un albero da frutto, che promette un grande raccolto. Si bagnano nell’acqua limpida della sorgente e si sdraiano sull’erba. Non ci sono preoccupazioni, né di vecchiaia, né di malattia, nessun falso senso di vergogna, nessuna disputa.


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uperato il lago di Bolsena e la sua «aire cattiva», la brigata di Lucchesi in fuga dalla peste sosta stremata su un bel prato fiorito e chiede al narratore (lo stesso Sercambi) «alcune novellette di piacere [piacevoli]». Questi non si tira indietro e si mette a raccontare alcune storie scherzose su questioni d’amore, all’apparenza prosaiche, che vedono protagonista madonna Bambacaia contessa di Montescudaio e le sue sagge «sentensie». Lo scrittore lucchese si premunisce di spiegare lo scopo di queste novellette: «Prego ogni persona a cui piú diletta che quelle tegna a mente, incominciando prima dalle donzellette, le quali pungendo loro la latuga per teneressa [quando sono prese dalla smania], possano ad exemplo cognoscere il vero dal falso». In questo passaggio riconosciamo il fine moraleggiante degli exempla di Sercambi. Le brevi storie della nobildonna pisana (il nome Bambacaia deriva da bambagia) sono ricordate nei Documenti d’amore di Francesco da Barberino (12641348) e nelle Facetiae di Poggio Bracciolini (13801459). Questi elementi bastarono al filologo e critico letterario Francesco Novati (1859-1915) per ipotizzare, nel saggio Monna Bombaccaia contessa di Montescudaio e i suoi «Detti d’amore» (1896), che la donna fosse realmente vissuta, nonché l’esistenza di questa raccolta risalente al Duecento «che sui primi del Quattrocento correva forse ancora in Toscana sotto il di lei nome». La tesi è in aperto contrasto con quella di Albino Zenatti (1859-1915), il quale, nel saggio Una fonte delle novelle del Sercambi (1895), si riferisce a un libretto di «oscene novelluzze» solo attribuibile a un’immaginaria madonna Bambacaia. Il filologo Luciano Rossi (1945), curatore di un’edizione critica del Novelliere di Sercambi, ha invece affermato che «sia esistita o no questa ipotetica nobile scrittrice duegentesca, ci pare comunque indubbio che i Detti a lei attribuiti siano stati un’opera reale», a cui attinge Sercambi. A Pisa, la contessa Bambacaia dei conti di Montescudaio «donna di profondissima virtú e onesta del suo corpo» viene spesso consultata da uomini e donne su varie questioni intime per la sua saggezza. Alla metà del Duecento Montescudaio, castello della Val di Cecina, aveva già i suoi conti, parenti dei Della Gherardesca, che godevano della protezione della Repubblica di Pisa e dichiarati in seguito vicari della Maremma. Nella novella XXV, Dolcebene, Perla e Caracosa sono tre giovinette da marito sedute su un prato come quello dove sosta la brigata. Le tre vergini sono attanagliate da un dubbio: «Di che sare’ meglio per le donne lo pincoro [pene] dell’uomo, e qual meglio dicesse fosse chiamata sopra l’altre maestra». Dolcebene sostiene sicura: «Io per me lo vorrei di ferro, perché non si potre’ mai rompere, e come questo sare’ molto duro»; Perla, ribatte: «Io lo vorrei d’osso d’avolio [avorio] però che [poiché] sarebbe pulito e

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non mi rafredere’ [raffredderebbe] l’ugello insasiabile»; Caracosa conclude: «E io vorrei quell’ugello di nerbo». Notiamo come i leggiadri nomi di Dolcebene, Perla e Caracosa coesistono senza particolare contrasto con l’oscenità dei loro discorsi. Le ragazze non sanno decidere quale delle tre ipotesi somigli di piú a un vero membro maschile e decidono di consultare madonna Bambacaia per sapere «qual dé esser di loro maestra [quale dovesse essere dichiarata signora e riportare la vittoria assoluta sulle altre per aver dato la risposta migliore]». Esposta la questione, madonna Bambacaia chiede a Dolcebene perché immagina l’uomo con un pene come il ferro: «Perché il ferro è duro e mai rompere non si può». La nobildonna frena l’entusiasmo: «La tua speranza [opinione] è falsa, però che [poiché] il ferro, essendo freddo per sua natura, rafrigera [raffredda] quel membro che vuol di continuo stare caldo e per lo star caldo desidera sempre stare coperto; ti dico non déi [devi] esser chiamata maestra». Bambacaia si rivolge quindi a Perla, affinché spieghi il motivo della sua scelta: «Perché l’osso è molto duro e pulito, e questo vuole la nostra volontà». La nobildonna risponde: «Lo tuo pensieri non è buono, però che [in quanto] l’osso non ha sentimento ed è arido, e la natura femminile desidera cosa fruttifera; e per questo non meriti maestra esser chiamata». In questa risposta della contessa notiamo come accenni alla necessità del coinvolgimento emotivo nel rapporto sessuale, al di là della consistenza dell’organo virile.

Ma conta anche la passione...

Si rivolge infine a Caracosa e le chiede la sua versione: «L’nerbo è alquanto sensibile ed è uno membro assai domestico; ed è boccone che la nostra bocca, che sempre desidera aver in bocca qualche cosa, può quello conducere in che luogo vuole». Sentite le motivazioni, Bambacaia protende per quest’ultima risposta, ma conclude: «Di vero io ti darei il maestrato di costoro, se avessi ditto [detto] compiutamente ma perché hai in alcuna cosa fallito sono contenta che prendi tué lo primo onore [non la vittoria assoluta, ma un riconoscimento relativo]». Poi rivolgendosi a tutte e tre, rivela: «E io lo vorei di grugno di porco, che quanto piú rumica [grufola e raspa] piú diventa caloroso», per sottolineare l’importanza della passione nel rapporto sessuale. Le tre giovani afferrano il concetto e se ne vanno via liete. Al termine della novella, il capo brigata dei Lucchesi nota che il buonumore è tornato sui visi del gruppo, in particolare su quelli delle fanciulle ed esorta il narratore a raccontare la seconda storia che vede protagonista la contessa (XXVI). Lucrezia ed Elena sono due belle giovani che hanno «già assagiato cosa è l’uomo» e si chiedono chi nella coppia «giovava piú di quel fatto». Probabilmente le due sono già sposate, perché Sercambi reputa sconveluglio

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L’Albero della Fecondità affrescato, tra il 1265 e il 1335, sopra le vasche della Fonte dell’Abbondanza, a Massa Marittima (Grosseto). Il dipinto mostra un grande albero dai frutti fallici che fa da sfondo a quella che sembra essere una festa pubblica, in cui un gruppo di donne, in primo piano, cerca di accaparrarsi i singolari frutti. Intorno si vedono uccelli neri che volteggiano minacciosi e altre figure di dubbia interpretazione. Nel complesso, potrebbe trattarsi di un inno propiziatorio alla vita.

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il novelliere di giovanni sercambi/4 niente e pericoloso il sesso al di fuori del matrimonio, in quanto inficia le basi morali della società. Lucrezia pensa che sia l’uomo, mentre Elena ritiene sia la donna ad apprezzare di piú il sesso; scommettono una cena e si recano da madonna Bambacaia affinché dia il suo responso. Dopo aver esposto la questione, la nobildonna chiede a Lucrezia che «assegnasse [spiegasse] perché a l’omo piú che alla donna di quel fatto ne giovava». Lucrezia sostiene: «Perché si vede l’uomo pagare la donna a tal atto dé venire [la donna che deve sottostare alle sue voglie]; e piú, che a molti pericoli si mette per avere sua intensione [per raggiungere i suoi intenti] d’aver donna cui elli ami [che egli ama]». Bambacaia chiede quindi a Elena di esporre il suo pensiero: «Io dico che alla

donna piú ne giova, però che [in quanto] che la donna acciò che si possa congiungere con l’uomo si parte dal padre e dalla madre e dà denari all’uomo [portandoglieli in dote, quand’egli la sposa]. E per questo dimostra la donna aver maggior diletto che l’uomo».

La prova del miele

Dopo aver ascoltato le ragazze, la contessa non scarta nessuna delle loro prese di posizione, ma chiede a Lucrezia «che allo speziale andasse per II once di mèle [miele]». Sercambi stesso aveva diverse botteghe di spezie a Lucca che si dedicavano anche alla confezione di libri e di oggetti di cartoleria. Al ritorno dallo speziale, Bambacaia invita Lucrezia a mettere un dito prima nel A sinistra disegno raffigurante un uomo e una donna impegnati in una copula, da un codice del Tacuinum Sanitatis. 1370-1402. Liegi, Université de Liège, Bibliothèque. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una cerimonia di fidanzamento, da un codice degli Annales de Hainaut di Jacques de Guise. XV sec. Boulogne-surMer, Bibliothèque municipale des Annonciades.

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miele e poi a portarlo alla bocca: «Or mi dí [dici] a chi è paruto meglio e piú dolce questo mèle, o al dito o alla bocca?». La giovane risponde «alla bocca» e la nobildonna le chiede il motivo: «Perché il mèle è rimaso in bocca e al dito non è rimaso punto [non è rimasto nulla]». Bambacaia sentenzia: «Cosí diviene del membro dell’uomo che mettendolo in nella sottana bocca, tutto il mèle romane [rimane] in nella bocca, cioè a la donna, e a l’uomo niente ne rimane. E pertanto alla donna piú ne giova che a l’uomo». Per questo motivo, Elena si aggiudica la vittoria. Le fanciulle della brigata appaiono galvanizzate da questa novella, tanto che il capogruppo ne chiede subito un’altra al narratore (XXVII): «Furono in Firense alcune giovane e giovani che essendo in uno prato fiorito

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come ora siamo noi, che venendo a disputare tra loro dell’amore delle donne, fu ditto per quelle giovane [da quelle giovinette] a’ giovani che se alcuno giovano domandasse una giovana d’amore in un campo di fave fiorite, che ’l campo delle fave fiorite ha tale virtú che la giovana non dire’ di no. Li giovani misero [ammisero] che non dovea esser vero [non raccogliendo cosí l’implicito invito delle fanciulle]». I ragazzi rimettono la verità sul potere del campo di fave fiorite a madonna Bambacaia, scommettendo che i perdenti dovessero pagare «uno carnelevale [una merenda]». Esposta la questione, la nobildonna sentenzia: se fosse vero, «sempre mi trovereste in campo di fave fiorite!». In modo sottile, Bambacaia rimprovera l’ingenuità

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il novelliere di giovanni sercambi/4 Miniatura raffigurante una coppia di amanti che conversa in un giardino, da un codice che raccoglie le opere di Christine de Pizan. 1410-1411. Londra, British Library.

delle ragazze con questa risposta, tanto che il narratore precisa la sentenza: «Se il campo delle fave fiorite ha proprietà che non disdire’ [non riuscirebbe a dire di no] la giovana quando fusse richiesta d’amore, e io vi dico che d’ogni lato e in ogni parte dove lo giovano richiede la giovana di quel fatto, che la giovana non disdire’ [non riuscirebbe a dire di no]. E però [Per questo madonna Bambacaia] disse sempre la troveresti in campo di fave fiorite». Rinfrancate da queste novelle e «da un poco di oragio [brezza]», le fanciulle della brigata cominciano a danzare «non avendo ancora in tutto ’l camino dansato». Questo dettaglio ci rivela l’estrazione delle ragazze, in quanto la danza era un’attività tipica delle classi elevate medievali; allo stesso divertimento si dedicano i dieci narratori del Decameron, che appartengono alla

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nobiltà fiorentina. Con spirito rinfrancato, i viaggiatori di Sercambi riprendono il cammino verso Orvieto.

Ranieri, sposo diffidente

L’ultima novelletta che vede protagonista madonna Bambacaia è la LVI. A Pisa, Ranieri da San Casciano «giovano e ricco, il quale talora la volontà [in senso volitivo, capriccioso] li montava piú che il senno» non è ancora sposato e i familiari insistono perché prenda moglie: «Poi che [Affinché] siete contenti, io ne prenderò; ma ben vi dico che, se io li troverò che non sia pulcella [vergine], io non la ripiglierò come alla sua casa ne ll’arò mandata». Nel Trecento in molte città era usanza che le spose novelle, dopo essere state condotte a casa del marito e aver consumato il matrimonio, facessero luglio

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Disegni raffiguranti la pratica della musica e della danza (a sinistra) e un momento di piacere, da un codice del Tacuinum Sanitatis. 1370-1402. Liegi, Université de Liège, Bibliothèque.

una visita alla casa paterna e qui si fermassero per alcuni giorni, per poi tornare alla residenza coniugale. I parenti sono d’accordo: «Elli farà come fanno li altri. Troviamo modo che una n’abbia». La scelta ricade su una «giovana bellissima e ben nodrita [ben educata]» di nome Brida [Brigida] delli Orlandi «rimasa sotto il governo della madre però che [poiché] Jacopo suo padre era morto». Secondo lo sposo, però, la prima notte di nozze qualcosa non va: «Ranieri come giovano sagliendole in sul corpo faccendo le funtioni sponsalisie, Brida, ch’è sotto a Ranieri, sensa pungolo [senza bisogno di essere sollecitata] il culo alsando, intanto che [tanto che] Ranieri giú della soma cadde. E caduto, disse fra sé: “Costei non è pulcella, poi che ’l culo ha alsato sí bene che non l’arei mai creduto”. E sensa dir altro, la notte si riposò. E l’altra sera similmente faccendo, Ranieri disse: “ Per certo quando Brida ricortirà [quando Brida farà il ricorteo, ovverò tornerà a casa sua per visitare solennemente i parenti] a me non possa nuocere che a me mai s’acosti [non la rivorrò piú]”. E per questo modo, ogni sera ch’è Brida seco con Ranieri faccendo quel fatto, Brida menava il sedere». La giovane sposa rientra a casa, ma, al momento di tornare dal marito, viene a sapere che non la vuole piú perché «a me fu promessa vergine e io trovo che ella è piú maestra di quel fatto che una meretrice, e piú mena il culo che loro. E pertanto mai la ripiglierò». La madre della sposa sa «che lla figliola esser perfetta» e si dispera: «Lassa, trista me! Costui mai non la vorrà poi che nel capo l’è caputo [dal momento che si è messo in testa quest’idea]».

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Le amiche consigliano la madre disperata di chiedere consiglio a madonna Bambacaia, la quale, messa al corrente della situazione, si procura un anatroccolo, lo mette sotto una cesta nel salone del suo palazzo e convoca Ranieri. Quando il giovane sposo giunge al suo cospetto «lo fué puonere a sedere apresso di sé, e con una massuola percotea l’acqua e fé alsare la canestra ov’era l’anatra. Come l’anatra sentío muover l’acqua, subito piediconi si gitta in quel bacino». La contessa si rivolge al giovane sposo: «Che vuol dire che questa anatra cosí piccola, sensa che altri la conducesse, ha trovato quest’acqua e dentro vi s’è gittata?». Ranieri le risponde: «La natura dell’anatra è, come sente l’acqua, non avendone mai veduta, subito vi si gitta dentro». A questo punto Bambacaia sentenzia: «Cosí come per natura l’anatra, ch’è un ugello sensa intelletto, si gitta in nell’acqua non avendone mai veduta, cosí la femina, non avendo mai assagiato omo, come l’assagia e abbia l’altrui in nelle suoi carni, per natura mena il culo».

La «riabilitazione» di Brida

Ranieri scoppia a ridere e le chiede perché gli abbia detto questo: «Poiché sento che non vuoi ripigliar la donna tua perché quando ebbe a fare teco [ebbe a che fare con te], il culo menò. E però ti dico: và sicuramente e prendila, ché tu l’avesti vergine e buona: non volere tu esser cagione che cattiva divegna». Ranieri «vergognoso» riprende Brida sotto il tetto coniugale «e dapoi si danno piacere sensa quel sospetto». Al termine della «dilettevole novella», la brigata ascolta i «cantori e le cantarelle» intonare pia-

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il novelliere di giovanni sercambi/4 Allegoria della copula, calcografia di produzione italiana. XV sec. Washington, National Gallery of Art.

cevoli canzonette che, oltre alla danza, sono un altro svago tipico delle classi piú agiate. Da queste novelle, comprendiamo come Bambacaia possa essere considerata la prima sessuologa medievale, perché sgombera il campo da false credenze e da luoghi comuni nel campo dei rapporti intimi.

Schermaglie accademiche

Lo stile sboccato non deve trarre in inganno, perché è una testimonianza preziosa del modo di parlare di sesso nel Medioevo, anche fra le classi sociali piú elevate. Già il filologo Novati, alla fine dell’Ottocento, rispose al suo collega Zenatti che aveva definito i racconti di madonna Bambacaia «rusticamente pornografici», tanto da censurare le novelle nel suo saggio precedentemente citato, con queste polemiche parole: «La ripugnanza che il signor Zenatti prova a ritenere monna Bombaccaia persona reale ed uscita davvero da una delle piú nobili casate che vantava la Toscana nel secolo Tredicesimo deriva, benché egli non manifesti il suo chiaro pensiero, dall’indole dei racconti che il Sercambi le attribuisce. Né è possibile negare che, leggendo le risposte ch’ella avrebbe date a quesiti i quali noi giudichiamo, ed a ragione, scurrili , grossolani, osceni, non venga fatto di provare qualche meraviglia che una donna non solo di condizione elevata ma di “profonda virtú e onestà”, come il Sercambi piace definirla, potesse prendere diletto nel sentenziare sopra dubbi, che oggi niuno oserebbe proporre se non in mezzo a un crocchio di giovinastri e di sgualdrine». «Però è indispensabile, ove si voglia giudicare serenamente in proposito, reagire contro quella istintiva

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impressione e prescindere del tutto dal nostro modo di vedere, allontanando dalla mente nostra quei concetti di moralità, ch’essa è abituata a considerar quasi inviolabili (…) I criteri secondo i quali si pondera ciò che una persona perbene può o non può dire [sono] andati senza posa modificandosi e facendosi nella società nostra piú rigorosi. Talune allusioni, talune frasi a doppio senso, talune facezie che dame del secolo scorso potevano permettersi di ascoltare e di pronunciare, puranche una donna onesta oggi si vergognerebbe “forse” di ripeterli anche in un crocchio intimissimo; eppure le dame del Settecento erano già avvezze ad arricciare il naso a certe novelle e burle, che avrebbero fatto sbellicare dalle risa le ave loro e piú ancora le bisnonne». «Ora possiamo noi immaginare piú castigata nel linguaggio piú misurata nei suoi discorsi di quella del secolo XV e del XVI secolo la società Toscana del dugento, in mezzo alla quale la contessa di Montescudaio ha secondo ogni verosimiglianza vissuto? Possiamo noi dubitare a mo’ di esempio, che una gentildonna del secolo XIII abbia arrossito a dire o scrivere quel che Beatrice d’Este, la moglie di Ludovico il Moro, non esitava a far sapere alla sorella ch’ella aveva “a bon fine e per evitare maggior male” inviato al marchese di Mantova che si trovava al campo, “una femmina di partito”? Erano forse i costumi piú rigidi ed i discorsi piú modesti? A giudicare dalle sfuriate dei moralisti non si direbbe davvero». E noi, nel XXI secolo, come possiamo non essere d’accordo? F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Un notaio impostore luglio

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testi di Didier Boisseuil, Maurizio Tuliani e Duccio Balestracci

TERME Un bagno di salute Nel solco di una tradizione antica, mirabilmente sintetizzata dall’espressione «mens sana in corpore sano», uomini e donne del Medioevo rinnovano l’uso di frequentare le terme. Alla ricerca di abluzioni rilassanti, tonificanti, ma anche terapeutiche

Miniatura raffigurante una stufa, una via di mezzo tra il bagno pubblico e il bordello, con uomini e donne nudi che si lavano e mangiano insieme da un codice dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo. 1470 circa. Berlino, Staatsbibliothek.


Dossier

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l termalismo riguarda tutte le pratiche legate all’impiego a fini terapeutici delle acque termali, vale a dire delle acque minerali e spesso calde che sgorgano naturalmente dal suolo. Queste sorgenti erano apprezzate già dai Romani che, come Plinio od Orazio, frequentavano gli stabilimenti termali costruiti per raccogliere le acque e dare ricovero ai malati. In Occidente, durante i primi secoli del Medioevo, questi edifici, disseminati un po’ dappertutto all’interno dei confini dell’impero, furono abbandonati e caddero talvolta nell’oblío. A quanto sembra, è solo all’inizio del XIII secolo che le acque termali cominciano a essere utilizzate di nuovo con frequenza e regolarità. Numerosi erano coloro che si recavano presso i cosiddetti «bagni» per sottoporsi a cure di vario tipo. «Andare al bagno» diventa cosí un’attività familiare per i Toscani del XV secolo, come sottolinea Federigo Melis – uno dei pochi storici ad aver studiato l’importanza sociale ed economica del fenomeno termale. Alcuni siti antichi furono nuovamente riportati in auge e sorgenti fino ad allora ignorate o inutilizzate furono valorizzate nelle campagne. Stazioni termali, piú o meno sviluppate, nacquero in Occidente: da Pozzuoli, presso Napoli, a Bath in Inghilterra, o a Baden, nelle vicinanze di Zurigo.

Un successo diffuso

In Italia, a partire dalla fine del Medioevo, il fenomeno conobbe un successo notevole ed è a questo periodo che risale la nascita di centri come Abano presso Padova, Bagni di Corsena negli Appennini – che divenne, a partire dal XVI secolo, insieme con Bagno della Villa, la prestigiosa stazione di Bagni di Lucca – o Porretta, non lontano da Bologna. In tutti questi luoghi, presero piede quelle che si possono definire vere e proprie pratiche ter-

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mali, basate sull’impiego di terapie elaborate, ma che nello stesso tempo concedevano ampio spazio agli svaghi e ai divertimenti. Le virtú curative delle fonti dipendevano dal contenuto in minerali e soprattutto dal grado di calore delle acque, tanto che quelle a temperatura piú bassa erano spesso ignorate. Le piú calde e le piú sulfuree erano le preferite: esse si rivelavano efficaci nella maggior parte delle patologie ed erano particolarmente indicate per cura-

Sulle due pagine miniature tratte da un codice che contiene il carme di Pietro da Eboli, De Balneis Terrae Laboris, sulle proprietà curative delle acque termali della zona tra Pozzuoli e Baia, piú noto sotto il titolo De balneis Puteolanis. Fine del XIII sec. Roma, Biblioteca Angelica. Dedicatario e ispiratore del carme fu Federico II di Svevia, che ebbe occasione di sperimentare di persona le virtú dei bagni di Pozzuoli.

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Dossier

re ulcere, piaghe infette, malattie della pelle, come la scabbia, e tutte le forme di prurito. La loro efficacia e l’assenza di controindicazioni facevano sí che fossero adatte sia agli adulti che ai bambini. Nel 1341, il cronista fiorentino Donato Velluti spedisce ai bagni il proprio figlioletto, affetto da una «puzza minuta che ‘l consumava», insieme con la sua balia. Le norme termali senesi della fine del XIII secolo

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prevedevano l’accesso gratuito ai luoghi di cura per i lattanti e i loro accompagnatori. Il calore delle acque termali dimostrava tutta la sua efficacia in caso di dolori reumatici o artritici e piú in particolare di gotta, malattia diffusissima all’epoca, soprattutto tra i potenti, che erano peraltro frequentatori assidui delle terme, il padre di Lorenzo il Magnifico, Piero de’ Medici detto «il

Gottoso», visitò a piú riprese parecchi siti toscani. Si credeva che l’acqua che sgorgava da certe sorgenti fosse in grado di calmare i dolori uterini e di guarire le donne considerate sterili. Nell’Italia medievale, erano numerose le coppie che frequentavano i bagni, nella speranza di ottenere una discendenza. Ad esempio, Francesco di Marco Datini, il grande mercante di Prato, e sua moglie luglio

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Una vasca termale naturale a Bagni di Petriolo, località situata al confine fra i territori di Monticiano (Siena) e Civitella Paganico (Grosseto) e frequentata sin dall’età antica per la presenza dalla sorgente situata sulla riva del torrente Farma, da cui sgorga acqua sulfurea a oltre 40° di temperatura.

Margherita visitarono nel 1384, senza successo, Bagni a Corsena, proprio allo scopo di concepire un bambino e, nel 1406, Buonaccorso Pitti, illustre membro della nobile famiglia fiorentina, accompagnò la sua sposa a Bagni di Petriolo affinché gli donasse un figlio. Numerose acque termali si bevevano, infine, per curare il fegato o lo stomaco, o per liberarsi dei calcoli renali. Cosí, nel 1581, lo

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scrittore francese Michel de Montaigne, diretto a Roma per consegnare al papa i suoi Saggi, approfittò del viaggio per tentare di porre termine alle sue coliche di reni. Egli visitò, uno dopo l’altro, alcuni dei siti piú famosi per questo tipo di patologia: Plombières nei Vosgi, Baden e Bagni di Lucca. Sembra, in effetti, che con sempre maggiore frequenza, rispetto a quanto era avvenuto fino

ad allora, alla fine del Medioevo si attribuisse efficacia terapeutica particolare a ciascuna delle fonti o delle stazioni termali. Anzi, chi intendeva sottoporsi a questo tipo di cura non sceglieva una località per i bagni senza essersi preventivamente documentato in merito all’efficacia delle sue acque.

Il parere del medico

Per lo piú ci si informava presso amici e probabilmente presso la gente del luogo, una volta sul posto. A Pozzuoli, all’inizio del XIII secolo, per aiutare i malati a compiere la propria scelta, dei cartelli posti davanti a ogni vasca segnalavano le qualità medicinali di quella fonte. Tuttavia, le persone piú agiate preferivano ricorrere ai servizi di un medico e qualcuno pretendeva persino una ricetta (consilium); come il papa Pio II, che nel 1461, prima di recarsi a Bagno di Macereto nel territorio di Siena, consultò Bartolo di Tura Bandini, uno dei piú famosi medici della città. Nella stessa epoca, il marchese di Mantova, che soggiornava nella vicina stazione di Bagni di Petriolo, assumeva uno specialista per tutta la durata della sua permanenza alle terme. Gli esperti potevano fare assegnamento su un’importante letteratura medica. In effetti, fra il XIII e il XIV secolo, furono circa una trentina i trattati che riguardavano le acque termali scritti da medici in qualche caso molto noti. Tra queste opere, che parlavano in genere delle qualità terapeutiche e talvolta minerali di una o piú fonti di una determinata regione, le piú complete e dettagliate rimangono probabilmente i trattati di Ugolino da Montecatini (redatto nel 1417) e di Michele Savonarola, zio di Girolamo (composto nel 1452) che descrivevano l’insieme delle sorgenti italiane. Tutti questi manuali sono stati (segue a p. 78)

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Dossier Terme di Toscana

Stazioni rinomate Alla fine del Medioevo, in Toscana, le stazioni termali ricaddero principalmente sotto la dominazione delle città stato. Dalla fine del XIII secolo, Lucca e Pisa possiedono molte fonti termali, tra cui Bagno a Corsena e Bagni San Giuliano, mentre Siena afferma progressivamente la sua tutela su numerosi siti e, nel XV secolo, si assicura la gestione di una decina di stazioni, alcune delle quali avevano acquisito, anche al di fuori della Toscana, un’eccellente reputazione, destinata a consolidarsi nel tempo (Bagni di Petriolo, Bagno di Macereto, Bagno Vignoni, Bagni San Filippo, San Casciano dei Bagni). Da parte loro, i Fiorentini, che non disponevano di località termali nel loro contado, finirono per controllare molti siti, quando conquistarono Pisa e Volterra (Bagno a Morbo). La maggior parte di queste città emanò un insieme di norme termali, raccolte in alcune ordinanze particolari (ordinamenta) o, al contrario, inserite in vasti Statuti urbani, che ci permettono di conoscere meglio le forme organizzative e amministrative delle stazioni termali (vedi anche il box a p. 86).

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Il borgo di Bagno Vignoni (San Quirico d’Orcia, Siena), che conserva l’impronta medievale, con gli edifici affacciati sulla «piazza delle Sorgenti», occupata da una vasca rettangolare in cui sgorga acqua termale calda e fumante dalla falda sotterranea di origini vulcaniche.

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Dossier raggruppati e stampati, nel 1553, dall’editore veneziano Giunta in una vasta raccolta intitolata De Balneis, che rimane un documento insostituibile per conoscere le pratiche termali in uso nel Medioevo. Gli autori medievali ripresero alcuni precetti dei medici antichi, Ippocrate, Galeno e Avicenna, stabilendo con maggiore precisione i principi della cura termale. Il trattamento doveva durare circa tre settimane e aver luogo principalmente in primavera o in autunno – ma talvolta anche in estate, nel caso di località montane – escludendo, quindi, le stagioni i cui eccessi climatici potevano nuocere ai pazienti. Si cominciava con un salasso o con una purga; sanguisughe e lassativi erano venduti in ogni stazione e il

commercio di questi prodotti era talvolta praticato da professionisti, insediati temporaneamente nei pressi delle fonti durante la stagione termale: barbieri come a Bagno di Rapolano (l’odierna Rapolano Terme), nei pressi di Siena, all’inizio del XIV secolo, o farmacisti come nel caso di Bagni di Lucca, nel XVI secolo.

Durate variabili

Il bagno era alla base di ogni cura. La sua durata variava nel corso del soggiorno: breve durante i primi giorni, si allungava via via che i corpi dei pazienti si abituavano al calore delle acque. Per calcolare il tempo preciso, alcuni disponevano di un «orologio da bagno», come la moglie di Francesco

di Matteo Castellani, in soggiorno a Bagno a Morbo presso Volterra intorno alla metà del XV secolo. Al bagno si aggiungeva, talvolta, la doccia. Questa nuova terapia fece la sua comparsa all’inizio del XV secolo, riportando subito un vivo successo e determinando lo sviluppo e la fama di parecchie località, tra cui Bagni San Filippo, nella parte meridionale del contado senese. Come precisa papa Pio II nei suoi Commentarii, si trattava di ricevere sulla testa e sulle spalle una grande quantità di acqua in modo tale da cacciare gli umori. Poiché il trattamento poteva, dunque, rivelarsi stressante se non addirittura brutale, i malati erano invitati a stare a riposo e a seguire una dieta adatta. Il trattamento si accompaA sinistra l’arte della medicina, formella in marmo scolpita da Andrea Pisano per la decorazione del campanile del Duomo di Firenze. 1343-1360. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Il rilievo raffigura un medico che esamina le urine per esprimere una diagnosi, a dire che la grandezza di quest’attività non è data dalla viltà della materia che tratta, ma dalla nobiltà del suo fine caritatevole: prendersi cura degli ammalati. Nella pagina accanto uno stabilimento balneare, dipinto su tavola di Hans Wertinger facente parte di una serie di immagini della vita contadina. 1516-1525. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

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Dossier Il bagno degli uomini, xilografia di Albrecht Dürer. XVI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto frontespizio del Virgilio Ambrosiano o Virgilio del Petrarca, con note autografe di Francesco Petrarca. 13001326. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. La pagina, miniata da Simone Martini, mostra in alto, a destra, Virgilio, seduto sotto un albero, che alza lo sguardo al cielo, ispirato; il grammatico romano Servio Mario Onorato, scostando una cortina, indica Virgilio a Enea; nella parte inferiore: un contadino, a sinistra, pota le piante col pennato (simbolo delle Georgiche); a destra, un pastore munge una pecora (le Bucoliche).

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le fonti letterarie

Il racconto si addice alle terme Per passare il tempo e divertirsi ai bagni, i piú facoltosi si dedicavano alla lettura o ascoltavano novelle narrate da uno dei compagni di cura. Alcuni portavano con sé qualche classico: cosí, il marchese di Mantova, che risiedette a Bagni di Petriolo nel 1460, disponeva di un manoscritto delle Georgiche di Virgilio e della Città di Dio di sant’Agostino. Altri preferivano autori piú contemporanei e divertenti. Il novelliere Gentile Sermini, attivo nel XV secolo, indirizza il suo zibaldone a «un suo caro fratello», partito per un soggiorno in una stazione termale del Senese. Da parte sua, Giovanni Sabadino degli Arienti ricorda che le novelle da lui raccolte nella sua opera Porrettane erano state raccontate quando il conte Andrea Bentivoglio, signore di Bologna, era venuto a curarsi a Bagno di Porretta (l’odierna Porretta Terme), a qualche chilometro dalla sua città, in compagnia di tutta una «brigata». Ispirandosi al Boccaccio, l’autore ricorda l’inoperosità dei convitati, costretti a trascorrere qualche giorno in campagna e il loro piacere nel raccontarsi le storie. Non è raro trovare in numerosi di questi brani, come quelli di altri novellieri del calibro del fiorentino Franco Sacchetti o del lucchese Giovanni Sercambi, il riferimento ad aneddoti legati alle cure termali. gnava a tutto un insieme di prescrizioni, che si ispiravano per la maggior parte ai principi tradizionali codificati dal Regimen Sanitatis della Scuola Salernitana. Si raccomandava ai pazienti di rispettare le abitudini alimentari che di norma non avevano dato loro problemi. Cosí, i malati piú agiati dovevano consumare solamente prodotti in linea con la loro posizione sociale, mangiare piccole quantità di pane ben lievitato o di carne di animali domestici, in modo particolare di pollame. I pazienti dovevano anche evitare gli eccessi e talvolta era necessario che si votassero temporaneamente alla castità. In effetti, qualche medico si ispirava a Galeno, raccomandando l’astinenza dai rapporti sessuali, ma la maggior parte degli specialisti invitava i propri malati soprattutto a divertirsi, ritenendo che il successo della

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cura dipendesse in gran parte dalla capacità del paziente di sottrarsi alle costrizioni della vita quotidiana.

Spazi per il gioco

Le attività ludiche erano numerose e consistevano principalmente in giochi di diverso tipo. Pur esercitando uno stretto controllo, i Comuni autorizzavano gli albergatori a offrire ai propri clienti la possibilità di giocare a scacchi e a dadi. Talvolta, nei pressi dei bagni venivano organizzate delle giostre, come nel caso dell’arrivo a Bagni San Filippo del condottiero Niccolò Piccinino, all’inizio del XV secolo. Nello stesso periodo, l’umanista Poggio Bracciolini riferisce dell’esistenza, intorno alle fonti di Baden, di un vasto prato destinato ai divertimenti quotidiani di chi si sottoponeva alle cure termali. Anche le feste erano frequenti: Montaigne, per esempio, organiz-

zò un ballo a proprie spese in occasione del suo soggiorno a Bagni di Lucca, per conformarsi, come egli stesso precisa, alle usanze di quella stazione termale. Nel territorio senese, l’organizzazione dei divertimenti era affidata a un «signore dei bagni», parodia dell’ufficiale responsabile dell’amministrazione delle stazioni. Nel 1455, questa carica fu proposta al giovane Lorenzo de’ Medici, venuto ad accompagnare suo padre, Pietro il Gottoso, a Bagni San Filippo. In tal modo, il soggiorno alle terme andò acquistando progressivamente, nel corso del XV secolo, una dimensione ludica e festiva sempre piú evidente e la cura non fu piú solo un momento riservato alle terapie mediche e al riposo, ma anche un tempo consacrato alle distrazioni e ai piaceri della vita. Didier Boisseuil

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Dossier

ALL’ HOTEL DEL BUONRIPOSO

di Maurizio Tuliani

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i un generale e diffuso benessere economico, a partire dei secoli XII e XIII, godettero anche certi luoghi di cura e villeggiatura come le terme. La riscoperta delle cure termali, molto praticate, com’è noto, in epoca romana, ma in gran parte abbandonate nel corso dell’Alto Medioevo, trovò da un lato il riconoscimento della scienza medica che le promosse come efficiente terapia in numerosi trattati di medicina, e dall’altro rappresentò l’espressione di una mondanità che caratterizzava la società medievale, al cui fascino pochi sapevano sottrarsi e che ammaliava anche chi benestante non era. I bagni divennero sempre piú una sorta di palcoscenico dove ostentare ricchezza e nel quale si riproducevano le distinzioni sociali cittadine. Cosí sappiamo di signori e alti prelati che arrivavano con al seguito un vero e proprio stuolo di servitori, di alti borghesi che giungevano in «brigata», di matrone e professionisti che si facevano accompagnare da amici, servitori o domestici, ma anche di tante figure dei ceti meno abbienti, che arrivavano equipaggiate alla meglio e con pochi denari. È proprio per questi motivi che le stazioni termali piú famose divennero tali piú che per la prodigiosità delle loro acque, per il fascino del luogo, la qualità dei servizi, la comodità delle strutture di accoglienza e la vivacità dell’ambiente che le caratterizzava. Sono queste infatti le peculiarità che resero famose in tutta la Penisola alcune località balneari come Bagni di Petriolo, Macereto e Bagno Vignoni nel Senese, Montecatini e Corsena nel Lucchese, Bagno di Romagna nel Forlivese, Porretta nel Bolo-

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gnese, le stazioni termali padovane, Acquasanta in territorio ascolano, i bagni dei Campi Flegrei nel Napoletano e quelli viterbesi. Le stazioni termali maggiori garantivano una ricettività elevata e divennero ben presto una sorta di villaggi dotati di strutture che offri-

Miniatura tratta da un codice del De balneis Puteolanis di Pietro da Eboli. 1471 circa. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una locanda, da un codice delle opere di Terenzio. 1411 circa. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. luglio

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vano servizi di alloggio e ristoro, in pratica per tutto l’anno, compresi i mesi invernali quando solitamente si registrava un calo delle presenze.

Camere, alberghi...

Coloro che si recavano ai bagni trovavano principalmente due tipi di strutture di accoglienza: l’albergo e la camera. Gli alberghi, di varie dimensioni, offrivano ogni sorta di servizi, dal vitto, all’alloggio, allo stallaggio e fungevano da taverna per i clienti di passaggio. Erano in genere strutture di buon livello e, talvolta, anche di notevole capienza come, per esempio, quella presente agli inizi del Quattrocento a Bagni di Petriolo, nel Senese, di proprietà di Giovanni di Bartolomeo dei Pecci, vescovo di Grosseto. L’albergo, che si sviluppava su piú livelli, si componeva al pianterreno di vari ambienti, tra cui un grande refettorio dove mangiavano e sostavano gli avventori e un’ampia cucina arredata con utensili d’ottone e di rame. Ai piani superiori si trovavano ben undici camere indicate – eccetto la migliore, detta del Buonriposo – con i nomi delle principali città dell’Italia centrale (Firenze, Siena, Perugia, Pisa, Lucca, Montalcino, Arezzo, Massa, Camerino, Cetona), forse assegnati in omaggio ai luoghi di provenienza degli ospiti piú importanti. Nessuna delle stanze era singola e anche quelle piú piccole erano dotate almeno di due letti, mentre nelle camere piú grandi ce n’erano quattro. L’arredamento – di qualità, come le suppellettili – evidenziava il buon livello dell’albergo: nelle stanze c’erano letti muniti di coperte bianche, bordate, o rosse di panno lino, coltri delle stesse tinte, capezzali e guanciali con federe, in gran parte bordate, panche e panchette, cofani di varie dimensioni, scendiletto, alari per il caminetto. La presenza in ogni camera di tavoli «ad comedendum» rimanda

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all’abitudine, in particolare delle categorie piú agiate, di consumare i pasti in privato senza mischiarsi con il resto degli avventori nel refettorio comune.

...e stanze spartane

Chi non poteva sostenere i costi dell’albergo trovava posto dagli «stazzonieri» che offrivano camere in locazione all’interno di particolari edifici. Queste stanze di dimensioni modeste erano arredate in maniera spartana: letti e sacconi di paglia su cui dormire, un tavolo e, al massimo, un cassone per riporre oggetti o indumenti. Chi sceglieva di soggiornarvi, quindi, arrivava ai bagni provvisto di biancheria personale e di quegli oggetti e utensili necessari alla permanenza. All’ospite appena giunto si pre-

sentava un ambiente scarno, da ripulire e sistemare prima di potervi alloggiare. Cosí, in una novella di Giovanni Boccaccio (Decameron, giornata VIII, novella 10) ambientata a Palermo si narra dell’incontro tra un mercante fiorentino e una bella «ciciliana» in un bagno presso la città. Qui, prima che la dama arrivasse, erano giunte due sue serve a sistemare la stanza presa in affitto, «l’una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo e l’altra un grandissimo paniere pieno di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser sú un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, poi una coltre di bucherame [fine tessuto di lino di provenienza orientale] cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a meraviglie».

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Dossier Scene di vita termale

Atmosfere idilliache Niente di meglio dei versi di Folgóre di San Gimignano, nel sonetto della sua collana dei Mesi dedicato a novembre, per esprimere lo spirito con cui ci si recava ai bagni: «E di novembre a Petriolo al bagno, con trenta muli carichi de moneta: la ruga sia tutta coverta a seta; coppe d’argento, bottacci di stagno: e dare a tutti stazzonier guadagno; torchi, doppier che vegnan di Chiareta; confetti con cedrata de Gaeta; e béa ciascun e conforti ’l compagno. E ’l freddo vi sia grande e ’l foco spesso; fagiani, starne, colombi, mortiti, lèvoli, cavrïuoli rosto e lesso: e sempre avere acconci gli appetiti; la notte ’l vento, ’l piovere a ciel messo: e siate ne le letta ben forniti». In questa sorta di celebrazione della vita bella e spensierata ritroviamo, cosí, l’alto costo del soggiorno ai bagni, dove si deve arrivare «carichi» di denaro, l’ostentazione di ricchezza attraverso il lusso e lo sfarzo nell’uso di utensili e metalli pregiati, i lauti guadagni per Una stazione termale all’altezza, poi, doveva disporre di un consistente approvvigionamento alimentare per soddisfare le richieste dei tanti che alloggiavano nelle stanze private, ma anche per gli ospiti degli alberghi che non volevano vincolarsi ai pasti preparati dagli osti. Le strade dei bagni pullulavano cosí di venditori di generi alimentari, di abitanti del luogo venuti a smerciare le loro eccedenze o quanto ricavato dalla caccia o dalla pesca. I prezzi praticati dai venditori non erano però i piú economici, né le loro maniere le piú affabili, al punto da creare spesso nervosismo e incidenti con i bagnanti. Cosí, nel 1447, alle terme di Macereto vicino Siena, il nobile Pietro di Cristoforo Borghesi aveva percosso con due pugni in faccia un certo Antonio di Grego da Massa che si era rifiutato di ven-

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Capolettera miniato nel quale sono inserite le immagini di un uomo e di una donna che prendono un bagno, da un codice de Li Livres dou Santé di Aldobrandino da Siena. Fine del XIII sec. Londra, British Library.

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i gestori delle strutture di accoglienza, le stravaganze e le sregolatezze nei costumi alimentari attraverso il consumo di cibi pregiati e i dolci piaceri del letto. Altra fonte da cui attingiamo informazioni sulla vita ai bagni è la novellistica medievale, un genere letterario che ben esprimeva le aspirazioni e la mentalità mondana dei ceti piú elevati. Sono ambientate alle terme novelle di Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti, Giovanni Sercambi, Giovanni Sermini e Sabadino degli Arienti. Quest’ultimo, nella sua raccolta quattrocentesca le Porrettane, scelse proprio una stazione balneare, Porretta, quale luogo dove cavalieri e dame bolognesi si incontravano per trascorrere piacevoli giornate e narrare le loro storie, in un ambiente che alternava convivi, giochi, musica, balli e avventure amorose. I bagni si rivelavano, quindi, un luogo dove facili erano la trasgressione e gli eccessi portati agli estremi. Agli inizi del XV secolo, il medico Ugolino da Montecatini, convinto assertore dell’efficacia delle cure termali, metteva in guardia dalla pericolosa abitudine dei bagnanti di lasciarsi andare: «spesso i malati incolpano i medici e i bagni perché con l’uso di questi non trovano guarigione ai loro mali e giovamento alcuno: talvolta, anzi, ne sono danneggiati (...). Di solito i malati che si recano agli stabilimenti termali sogliono piuttosto eccedere in taluni abusi piú del consueto. Si danno, per esempio, a divertimenti sfrenati, a banchetti troppo sontuosi con vini diversi». dergli il suo pesce rispondendogli «vilanescamente (...) tu non harai né con denari, né sencia denari». Certo, chi voleva evitare problemi e soprattutto chi non disponeva di grosse somme da spendere cercava di arrivare al bagno con il maggior carico di provviste possibili. A dimostrazione di ciò, sappiamo che gli abitanti di Firenze, soliti recarsi in gran numero alle terme, godevano agli inizi del Quattrocento dell’esenzione dall’imposta di gabella per carichi di panni e alimenti fatti uscire dalla città, con destinazione i bagni, per uso personale o della propria famiglia. Ma anche nobili e principi usavano recarsi alle terme carichi di provviste, come il principe Alessandro Gonzaga, che nel 1461 soggiornò a Bagni di Petriolo e che in una lettera inviata alla madre si rammaricava di non aver incluso tra le sue

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

scorte alimentari alcune forme di formaggio mantovano che sarebbero state gradite dai nobili senesi con cui era venuto in contatto.

Un buon affare

Della fama e del prestigio di una stazione termale traeva beneficio anche la città dominante. Alle autorità interessava che i bagni fossero sempre piú frequentati cosí da assicurarsi un’importante entrata economica e ovunque si mossero per migliorare i servizi, praticare un controllo sui prezzi e garantire la sicurezza agli ospiti. L’applicazione delle specifiche normative era spesso delegata agli operatori termali, direttamente interessati a un’ottimale funzionalità dei bagni. Albergatori e stazzonieri avevano una serie di doveri da osservare, come svuotare e ripulire i punti di balneazione, riparare per-

Miniatura raffigurante una locanda in cui viene servito del vino rosso corposo, del quale si elencano la natura, i benefici e le controindicazioni, da un codice del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

dite nelle condutture in cui scorreva l’acqua, far rispettare l’ordine pubblico, rifiutare l’alloggio ai delinquenti, impedire il gioco di azzardo e proibire che gli ospiti portassero con sé alcun tipo di arma. La sicurezza dei bagnanti era tra le prime preoccupazioni dei gestori delle stazioni termali. Frequenti erano le risse che scoppiavano in seguito ad antipatie e vecchie ruggini, magari a causa di una bella corteggiata, quasi sempre facilitate da qualche bicchiere di troppo. Ma la grande affluenza di persone, e soprattutto la presenza di gen-

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Dossier La struttura quattrocentesca sorta a Bagni di Petriolo quando la stazione termale rientrava fra i possedimenti di Giovanni di Bartolomeo dei Pecci, vescovo di Grosseto. Nella pagina accanto le terme di Plombières (Francia) in una tavola tratta dalla prima edizione del De balneis di Tommaso Giunta. 1553. Padova, Biblioteca di Scienze del Farmaco dell’Università di Padova.

I regolamenti

Norme puntuali e rigorose Particolarmente attente a regolamentare l’ospitalità ai bagni si dimostrarono le autorità senesi, nel cui territorio sorgevano numerose terme, anche di grandi dimensioni come Bagni di Petriolo e Macereto. Cosí, nel 1292, tutte le disposizioni fino a quel momento emanate sulla gestione delle terme vennero selezionate e raccolte in un unico corpo chiamato Ordinamenta Balneorum. Innanzitutto si stabiliva che il podestà di Siena avrebbe dovuto provvedere all’ispezione periodica delle staziones presenti ai bagni, alla registrazione di chi li gestiva e alla classificazione delle camere in meliores, mediocres e minores in relazione alla presenza al loro interno di tre, due o un saccone di paglia della grandezza di due braccia e mezzo (1,5 m circa). Il costo giornaliero delle stanze non doveva superare i 2 soldi per le migliori, 18 denari per le mediocri e 12 per le minori. Per la richiesta di ogni saccone in piú si poteva esigere un denaro al giorno, mentre per l’aggiunta di una coltre, un materasso o un capezzale due denari. Ogni stanza doveva inoltre essere dotata di un tavolo per mangiare della grandezza minima di tre braccia (2 m circa).

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Gli stazzonieri, ovvero coloro che offrivano camere in affitto all’interno di particolari edifici, dovevano esporre fuori dal loro stabile un’apposita tabella dove si indicavano il nome del proprietario, il prezzo stabilito dalle autorità e le masserizie presenti nelle stanze. Lo stallaggio, poi, doveva essere gratuito per gli ospiti che avessero comprato dagli stazzonieri fieno o biada per gli animali, altrimenti il costo giornaliero era stabilito in due denari per cavalli e muli e un denaro per gli asini. Agli albergatori, inoltre, era delegata una serie di compiti relativi alla manutenzione delle strutture di balneazione, come ripulire le vasche, accomodare i canali di scorrimento delle acque, provvedere all’illuminazione dei bagni. Le autorità senesi delegavano loro anche il compito di riscuotere le imposte comunali sull’entrata alle terme, attraverso la nomina annuale di uno degli esercenti a «camarlengo» dei bagni. Stazzonieri e albergatori avevano, infine, il compito di mantenere l’ordine pubblico, dovevano negare l’ospitalità a delinquenti e persone sospette, obbligare i bagnanti a non portare armi e in particolare vietare il gioco d’azzardo causa frequente di «lites, meschie et iniurie». luglio

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te danarosa, alimentava la venuta ai bagni anche di ospiti indesiderati come scrocconi, bari, malandrini e ladri di ogni sorta. In particolare, i furti erano una minaccia costante, data l’abituale promiscuità che caratterizzava gli alberghi e gli spazi adibiti alla balneazione.

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Erano pronti a tutto due ladroni, Giuliano di Pietro detto il Perugino e Giovanni Piccinino da Spoleto, che, nel 1450, in un albergo di Petriolo, volevano derubare un ospite che incautamente aveva mostrato di avere con sé molti denari. I due prima tentarono di avvelenarlo

mettendogli arsenico nei pasti poi, visto che il veleno non sortiva gli effetti sperati, avevano deciso di tagliargli la testa con una scure e seppellirlo nella stalla dell’albergo. Il piano fallí solo perché l’uomo, improvvisamente, la mattina seguente decise di partire per Siena.

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Dossier

BENESSERE E MONDANITÀ

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di Duccio Balestracci

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ovevano essere davvero un luogo di perdizione, terme e stufe, se nei primi anni del Trecento lo Statuto di un Comune (quello di Siena) si vedeva costretto ad ammettere, da un lato, il proficuo uso terapeutico di queste strutture attraverso le quali – si scrive – si conserva la sanità, come tutti i buoni medici raccomandano, e, dall’altro, a intimare però che, almeno per quanto riguardava le stufe, non ci si potesse trattenere in esse di sera dopo il secondo suono della campana perché «ne le stufe si commettono orribili et mortali peccati». Quali fossero questi orribili peccati è abbastanza facile intuirlo anche se il testo statutario non lo specifica: bagni termali e stufe prevedevano, per la loro clientela, una separazione dei sessi tanto rigida quanto teorica. Come ha scritto Andrea Barlucchi, è possibile ricostruire un quadro assai chiaro dell’utilizzazione promiscua dei bagni urbani (le stufe, appunto), frequentissimi in tutte le città, gestiti indifferentemente da aristocratici, borghesi, Comune e addirittura ecclesiastici, e nei quali, di regola, il bagno era solo propedeutico al sesso. Nelle vasche si mangiava addirittura (con grande disappunto dei medici i quali, dal Duecento, si affannavano a ricordare ai loro pazienti che la congestione da blocco di digestione era già stata inventata) in attesa che la nudità imposta dalle necessità di balneazione provocasse l’inevitabile eccitazione dei sensi. Non a caso, Castello della Manta (Cuneo). Fontana dell’Eterna Giovinezza, affresco della sala baronale, opera di un artista ignoto designato come Maestro della Manta, ma da alcuni assegnato invece a Giacomo Jaquerio. 1416-1420 circa.

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peraltro, in qualche caso gestori di stufe e tenutari di bordello erano la stessa persona che si alternava fra i due (spesso contigui) edifici, quando addirittura non accadeva che le due funzioni venissero espletate nello stesso locale.

Un duplice obiettivo

Se i bagni pubblici godevano di una cosí sinistra fama (ma, giova ricordarlo, essi venivano frequentati anche da persone che andavano a curarsi davvero e non come pretesto per altri sollazzi) altrettanto avveniva per le terme. Medici e fisici ne raccomandavano la frequentazione e ne magnificavano le qualità con trattati e disquisizioni, ma i pazienti le sceglievano non solo per curarsi, ma anche per fare vita mondana. Infatti, anche quando bagni termali e acque medicamentose non servivano da paravento per scappatelle extraconiugali o amori mercenari, andare alle terme (una pratica diffusa a tutti i livelli sociali) comportava, almeno per coloro che potevano permetterselo, anche organizzare un soggiorno il piú piacevole possibile, con buona compagnia e, soprattutto, senza fare economia di feste, giochi e divertimenti di ogni genere. A essere sinceri, sui giochi le autorità cercavano di imporre la moderazione: stare allegri non era, in linea di massima, reato, ma su come divertirsi si poteva anche esercitare un occhiuto controllo per evitare che qualche gioco degenerasse in modo incontrollabile. Cosí, per esempio, il regolamento steso nel 1292 per i bagni termali di Macereto, nella Maremma, prevedeva che i soli giochi ammessi per gli ospiti fossero la dama e gli scacchi: tutto il resto era severamente vietato. Ora, può darsi che chi andava alle terme si accontentasse dei due,

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Dossier Miniatura raffigurante l’interno di una «casa di piacere», da un codice dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo. 1470 circa. Berlino, Staatsbibliothek. Nella pagina accanto Estasi di santa Caterina (particolare), affresco del Sodoma (al secolo, Giovanni Antonio Bazzi). 1526. Siena, basilica di S. Domenico. A sinistra miniatura raffigurante uno scambio di coppie, da un codice del Decameron illustrato da un miniatore della scuola del Maestro del Duca di Bedford. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

pur nobili e affascinanti, pacatissimi giochi da tavolino, ma uno sguardo allo stato d’animo con il quale, in genere, ci si metteva in cammino per le terme ci dice che tale ipotesi è piuttosto irreale. Folgóre da San Gimignano ci fa capire subito che lo spirito di chi andava a fare i bagni era poco propenso all’ascetismo. Nel notissimo sonetto relativo al mese di novembre, in quel suo ciclo poetico dedicato ai Mesi (vedi il box alle pp. 8485), Folgóre raccomanda di mettersi in cammino per i bagni con trenta muli carichi di sacchi di soldi

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(e già l’incipit la dice lunga sul genere di vita che si pensava doversi fare nelle località «alla moda»), di coppe d’argento e di torce e doppieri (tutti strumenti indispensabili a una brillante vita di società da protrarsi, come si intuisce, anche nelle ore notturne).

Soggiorni... allegri

Fra le salmerie non devono mancare leccornie, né i capi di selvaggina destinati a rosolare sugli spiedi e a rallegrare i palati dei «pazienti». Sullo stato d’animo al quale tutto questo bendidio deve

essere funzionale, Folgóre non lascia dubbi: ciascuno si appresti a bere e far bere, e abbia sempre «acconci gli appetiti». Potrebbe sembrare una testimonianza fin troppo enfatizzata, ma in realtà da tutt’altro versante le parole di Folgóre di San Gimignano ricevono una clamorosa conferma. Una delle disperazioni dei medici medievali, infatti, è rappresentata proprio dall’impossibilità di far capire a chi va alle terme che si tratta di una cura e non di un bagordo. È vero che la maggior parte dei medici stessi invita i pazienti a distrarsi e anche a divertirsi, nella convinzione che uno stato d’animo sereno contribuisca al successo della cura. Ma è altrettanto vero che i medici piú avvertiti, rifacendosi all’insegnamento di Galeno, prescrivono la moderazione, quando pure non l’astinenza, ai loro pazienti e raccomandano, per quanto riguarda il cibo, la frugalità e l’assunzione di vivande leggere. Parole al vento, si direbbe, se nel Quattrocento, il medico Ugolino da Montecatini scrive sconsolato: «Di solito i malati che si recano negli stabilimenti termali sogliono piuttosto eccedere in taluni abusi piú del consueto. Si danno, per esempio, a divertimenti sfrenati, a banchetti troppo sontuosi con vini diversi». In questo clima viene quasi normale che le comitive che si recano alle terme si organizzino per passare il tempo con ben altre attività che la dama e gli scacchi. Non a caso, quindi, un gentiluomo che, nel 1461, racconta in una lettera il soggiorno dei Gonzaga alle terme maremmane di Petriolo, fra un bagno caldo, il ricevimento di un’ambasceria e una festa, chiosa le piacevoli giornate dei suoi signori riconoscendo che in «simili logi (...) la prima regola e ordine è di stare in continuo in piaceri e bandire ogni melanconia». Del resto, Sabadino degli Arienti (che ambienta nella cornice dei luglio

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santa caterina a bagno vignoni

Prove tecniche di espiazione Se ai bagni ci si recava soprattutto per rilassarsi e divertirsi, c’era anche chi, in controtendenza, ci andava per soffrire. Caterina Benincasa, ancora adolescente, già aveva le idee molto chiare sul suo futuro: fra la disperazione dei suoi familiari che sognavano per lei un buon matrimonio, fece sapere chiaro e tondo che la sua vocazione la spingeva a prendere il velo delle terziarie domenicane. Visti inutili i tentativi diretti di dissuaderla da questo fermo proposito, la madre pensò di aggirarne la resistenza mettendo la giovinetta a contatto con le tentazioni del mondo. Con il pretesto di andarsi a curare alle terme di Bagno Vignoni, monna Lapa si portò dietro Caterina, un po’ per compagnia, un po’ accampando la motivazione che anche alla ragazzina quelle acque medicamentose avrebbero fatto bene, un po’ perché – come ebbe successivamente a commentare Raimondo da Capua nella biografia della santa senese – in questa decisione c’era sicuramente lo zampino del demonio che vedeva preoccupato l’anima di Caterina irrimediabilmente perduta per la causa del Male. Caterina, ubbidiente, andò, ma non si lasciò ingannare, e cosí, scrive ancora il suo biografo, «anche in mezzo alle delizie (…) trovò modo di trattare duramente il proprio corpo», che era, merita ricordarlo, bagni di Porretta Terme la sua raccolta di novelle – appunto, le Porrettane – esplicitamente riferite dall’autore stesso all’anno 1475) ci mostra l’allegra compagnia di Andrea Bentivoglio, la quale dopo pranzo si diletta in giochi, suoni, canti e balli e in tutti quei passatempi ai quali «tutti li bagnaroli e altre gente de varie nazioni quivi, come curiali [uomini di corte] concorrevano». La bella brigata, dunque, si organizza con vini e leccornie, e se ne va a spasso lungo il Reno. Quando i giovani trovano «qualche ameno colle sopra uno praticello vestito di odorifere erbette e cinto da frondenti e umbrosi arboselli» fanno apparec-

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il principale nemico della mistica senese. Cosí, la futura santa accettò di fare i bagni ma reclamò il suo diritto a bagnarsi – per riguardo al proprio pudore – quando tutti gli altri, compresa la madre, se ne fossero andati. Quindi, quando la grande vasca di acqua caldissima che ancora oggi campeggia nel centro di Bagno Vignoni restava vuota, Caterina si immergeva, e allora «simulando di volersi meglio bagnare, si portava verso i canali lungo i quali scorrono le acque bollenti, [e] affliggeva il suo corpo assai piú che batterlo con la catena di ferro». Un tale esercizio di stoica sopportazione stupí lo stesso Raimondo da Capua, il quale, quando Caterina gli raccontò l’episodio, chiese come avesse potuto reggere il dolore delle scottature. Al che la santa rispose che, mentre si trovava immersa nell’acqua bollente, pensava alle pene del Purgatorio e dell’Inferno che avrebbe meritato dopo la morte, e pregava che quelle ustioni al proprio corpo servissero a farle un po’ di sconto sulle ben peggiori bruciature che sarebbero state inflitte alla sua anima per i suoi peccati. Con comprensibile scorno del Maligno che l’aveva pensato, il trucco al quale inconsapevolmente la buona madre Lapa si era prestata aveva finito cosí per trasformarsi in un esercizio di penitenza e in un ulteriore passo di Caterina sul cammino della santità.

chiare dai servitori «alcuni cipriani tappeti», si mettono a sedere e cominciano a raccontarsi quelle novelle che formano il contenuto del libro di Sabadino. In questo modo trascorrono la maggior parte del pomeriggio; poi, al tramonto, fanno ritorno ai loro alloggi cantando versi di amore e di gioia. Né basta, perché, rientrati, consumano la loro cena e poi, al lume delle torce, aspettano fra balli e giochi l’ora di andare a letto.

Il papa a Petriolo

Né è da credere che il clima festaiolo coinvolga solo i giovani rampolli delle famiglie piú ricche e piú no-

bili. Anche personaggi che, se non l’età, almeno lo status dovrebbero sconsigliare da atteggiamenti eccentrici si lasciano andare alla leggerezza, quando sono alle terme. Cosí, per esempio, avviene per i cardinali al seguito di Pio II, i quali, quando nel 1460 il pontefice si reca anch’egli ai bagni di Petriolo, gli fanno compagnia abbandonandosi a giochi da facchini di mercato, come testimonia in una sua lettera un gentiluomo del seguito papale, il quale racconta divertito di aver visto il cardinale di Bologna fare la lotta (giocare «a le braccia») con un altro cardinale su una collinetta, in presenza di quattro donne che ac-

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Dossier compagnavano l’esibizione dei due energumeni cantando. E, per parte sua, il gentiluomo – che assiste alla scena dalla sua camera dell’albergo – commenta, per nulla turbato da quello spettacolo, che «bisogna pure pigliarsi qualche ricreazione in questi luoghi increscevoli [sgradevoli] che ci sa solo [dove si sente soltanto odore] di gibetto [zibetto] e benzino [benzoino]», riprendendo, con questo commento, la convinzione largamente condivisa che, per sopportare gli odori acuti dello zolfo o degli altri minerali che di regola impregnano le acque termali, l’unica soluzione è di darsi al bel tempo. La logica lascia a desiderare, ma la giustificazione per un soggiorno pieno di piacevolezze è bella e trovata.

Un bagno alle terme Il disegno ricostruttivo mostra gli spazi pubblici destinati ai bagni, le stufe, cosí chiamate dalle omonime macchine utilizzate per riscaldare l’acqua. Le vasche di legno erano di diverse dimensioni, per una o piú persone; all’interno erano foderate da un lenzuolo e potevano essere sormontate da un baldacchino o da un lenzuolo teso allo scopo di trattenere i vapori, creando una sorta di sauna. Come già nella tradizione classica del termalismo romano, il bagno era in primo luogo un momento di socializzazione: alle stufe si mangiava, a volte stando nelle vasche stesse, si conversava, si giocava ed era possibile ricevere attenzioni di varia natura, approfittando, se del caso, di camere da letto appartate. Nelle località termali, oltre alle stufe e a terme private, esistevano anche bagni pubblici scoperti, solitamente gestiti dalla comunità e destinati ai ceti piú bassi della popolazione, nei quali donne e uomini si bagnavano nella piú completa promiscuità, coperti al massimo da corte vesti di tela.

La «stagione»

Non diversamente da quanto narrato in romanzi e film per età a noi molto piú vicine, anche nel Medioevo bagni e terme hanno la loro «alta stagione» di mondanità in momenti ben precisi dell’anno. Michel de Montaigne, di passaggio a Bagni di Lucca nel 1581, annota sul suo diario che la «stagione» dura da giugno a settembre, ed è in questo arco di tempo che si possono fare gli incontri mondani piú interessanti perché poi, a ottobre, tutti se ne vanno e l’unica compagnia resta quella della rustica popolazione del luogo. E nella «stagione» è un imperativo categorico della buona società dare almeno qualche ballo. Cosí, Montaigne, non si sottrae al suo dovere di gentiluomo e progetta per una domenica pomeriggio un ballo («come è usanza di fare ai bagni», e per rendere un atto di gentilezza alla gente del luogo, specifica, quasi a giustificare questa decisione cosí apparentemente in controtendenza rispetto al suo atteggiamento solitamente grave), la cui organizzazione si rivela subito di un complicato impensabile.

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Dossier Villa Buonvisi a Bagni di Lucca (Lucca). Nella pagina accanto ragazze che suonano, cantano e danzano, particolare del ciclo affrescato Allegoria ed Effetti del Buono e Cattivo Governo, realizzato da Ambrogio Lorenzetti e dalla sua bottega nel Palazzo Pubblico di Siena, tra il 1338 e il 1339.

Il ballo deve avere dei premi, da destinare alle dame piú leggiadre e ai gentiluomini piú aggraziati. L’uso, prende atto il francese, è quello di distribuire piú di un premio perché altrimenti sembrerebbe di voler privilegiare una sola donna. Per non incorrere in un’incresciosa gaffe, pertanto, e per evitare che insorgano sgradevoli gelosie è buona regola predisporre dagli otto ai dieci premi per le dame, e da due a tre premi per i cavalieri. Cosí, mentre il suo messo parte alla volta di Lucca con una lettera nella quale si chiede all’amico Giovanni di Vincenzo Saminiati il favore di provvedere presso i migliori artigiani, per Montaigne cominciano le seccature. Appena sparsa la voce del ballo «a premi», gli arriva infatti la processione delle sollecitazioni da parte di una moltitudine di persone ciascuna delle quali lo prega di non dimenticare «l’una, se stessa; l’altra, sua nipote; un’altra ancora, sua figlia». Finalmente, da Lucca, arrivano i premi: il Saminiati ha svolto al meglio l’incarico, e davanti al genti-

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luomo francese vengono sciorinati una cintura di cuoio e un berretto di drappo nero destinati ad altrettanti gentiluomini, e due grembiuli di taffettà (uno verde e uno violetto) per le donne. I premi non sono tutti qui: Montaigne ha fatto tesoro di quanto gli hanno detto sul numero, ma ha anche fatto propria la convinzione che ci devono essere alcuni premi piú ricchi di altri da potersi destinare a qualche ospite di particolare riguardo, soprattutto a quelli di sesso femminile.

I premi e l’orchestra

Poi seguono i premi di minor valore: grembiuli di stoffa meno pregiata, spille, varie paia di scarpette («ma un paio – confessa – le regalai fuori del ballo a una graziosa giovane»), pantofole, cuffie di garza, piccole collane di perle. Gli avevano detto di non approntare meno di una decina di premi, ma Montaigne non vuole sembrare un taccagno: ne ha preparati, in tutto, diciannove (che gli sono costati un po’ piú di sei scudi, annota subito dopo) i quali dà ordi-

ne che, nel giorno del ballo, siano appesi a un cerchio e siano esposti, che tutti li vedano bene. Ingaggia, poi, l’orchestra: cinque pifferi che gli costano i pasti per l’intera giornata e uno scudo in tutto, e Montaigne, ancora una volta con un occhio rivolto alla mondanità e un altro al portafoglio, sottolinea la sua soddisfazione per aver speso cosí poco ed essere stato «fortunato, poiché normalmente non si trovano cosí a buon mercato». Cinque o sei giorni prima della data prescelta, Montaigne fa pubblicizzare la sua festa in tutti i luoghi vicini, e alla vigilia manda a invitare al ballo – e alla cena che a esso dovrà seguire – in modo personale tutti i gentiluomini e le gentildonne di Bagni di Lucca e dell’altra località, non lontana, di Corsena. Finalmente, ecco giungere il gran giorno. E, sull’inizio, anche il timore che la festa finisca con il rivelarsi un fallimento. All’orario previsto, infatti, il perplesso Montaigne non trova sul luogo che le donne del paese, ma subito dopo le cose vanno a posto: arrivano i gentiluomini, arrivano le luglio

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dame e, poiché la giornata si fa un po’ troppo calda per ballare all’aperto come in principio si era pensato, tutta la comitiva si sposta nelle sale del vicino palazzo Buonvisi. Ma il problema dei premi continua a preoccuparlo: se sceglie lui le dame da premiare, inevitabilmente, si crea dei rancori. E allora gioca d’astuzia: riunisce le donne e si riconosce incompetente a scegliere, fra tante bellezze e leggiadrie, quelle da premiare poiché tutte meriterebbero il riconoscimento. Che siano le dame stesse, conclude salomonicamente, a scegliere a chi dare i premi; e quando le gentildonne si schermiscono, la furbizia mondana del Montaigne assesta l’ultimo colpo. Se proprio ci tengono, dice, accetterà di far parte anch’egli della giuria, ma solo per dare il suo parere in un consesso fatto di dame che, sole, sono le abilitate a scegliere. Poi, distribuiti i premi e dribblata ogni possibile gelosia, tutti al rinfresco. Tutti, proprio tutti, popolazione locale compresa, sottolinea Montaigne, perché il rinfresco di

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un festino, in Italia, equivale a un pasto alquanto leggero in Francia. E dunque – è sottinteso – costa relativamente poco.

Una contadina istruita

La presenza dei villani del paese, peraltro, si rivela un’occasione straordinaria per un fuori programma. C’è, fra le fanciulle che ballano, anche Divizia, una povera contadina che abita a due miglia dai bagni: ha trentasette anni, è sporchissima, ha il gozzo e non sa né leggere né scrivere. Ma ha avuto una fortuna: un padre e degli zii i quali (evidentemente dotati di qualche livello di alfabetizzazione) leggevano in sua presenza l’Ariosto e altri poemi. Cosí, la sgraziata giovinetta aveva imparato a improvvisare essa stessa dei versi nei quali riusciva a far entrare i miti antichi, le genealogie degli dèi, i nomi dei paesi e degli uomini illustri «come se avesse fatto un corso di studi regolari», sottolinea ammirato il francese, commosso anche del fatto che la contadina improvvisa, sul momento, dei versi in onore suo.

Cosí si conclude la giornata di festa del Montaigne ai bagni: con un successo mondano eccezionale, riconosce egli stesso, perché vi avevano partecipato piú di cento persone fra gentiluomini, gentildonne e contadini, per i quali ultimi, peraltro, il momento dell’anno non era certamente il migliore che si poteva scegliere, dato che era tempo di raccolta e la gente del luogo era tutta impegnata nei campi, e poiché, oltre a questo, tutte le donne erano impegnate nella raccolta di foglie di gelso per i bachi da seta, una voce ragguardevole della produzione locale. Quando sono impegnati in queste due attività, commenta Montaigne, i «locali» non hanno testa per le feste. Eppure, quella del gentiluomo francese non avevano voluto perdersela né avevano rinunciato a godersi lo spettacolo nello spettacolo: quella bella gente elegante e piena di soldi che poteva permettersi di girare il mondo, di soggiornare ai bagni e di trasformare le cure in un appuntamento mondano e in una festa per l’intero paese. V

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Storie, uomini e sapori

Amaro e nero, ma pieno di vitalità di Sergio G. Grasso

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l caffè è una bevanda prodotta con i semi tostati e macinati di un arbusto sempreverde del genere Coffea, di cui esistono piú di cento specie, oltre alle due commercialmente rilevanti: C. arabica e C. canephora, meglio nota come robusta. Il caffè è attualmente la materia prima piú esportata al mondo dopo il petrolio, con un volume di mercato di oltre 130 miliardi di dollari annui, che equivalgono a quasi 3,5 miliardi di

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tazze bevute ogni giorno. Dal punto di vista botanico, il frutto della Coffea è una drupa – un frutto carnoso con una parte interna legnosa – che, giunta a maturazione, ricorda una ciliegia rosso-aranciata e che nella tunica polposa racchiude due semi (chicchi) di colore verdegiallognolo. Si ritiene che la pianta sia originaria degli altipiani etiopici, ma, per quanto a oggi non esista alcuna prova che indichi quando e tra quali nativi i suoi frutti sarebbero

stati utilizzati come stimolanti, si è inclini a pensare a un gruppo di nomadi di etnia Oromo presenti nel Nord-Est dell’Africa. L’etimologia di «caffè» si fa risalire al turco-ottomano kahve, a sua volta derivato dall’arabo qahwa, forma abbreviata di qahhwat al-bun, ovvero «vino del chicco», oppure da qaha nel suo significato di «che cancella l’appetito», ben noto effetto collaterale della bevanda. Una terza etimologia si rifà alla luglio

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città etiope di Kaffa, al centro di una zona fertilissima di altipiani dove la pianta cresce spontanea da millenni; tuttavia Kaffa fu fondata solo nel 1390, quando il caffè si era già guadagnato da almeno quattro secoli la meritata notorietà in tutto il mondo musulmano.

Quegli uccelli fin troppo vivaci... La scarsità di fonti certe sull’origine e la storia antica del caffè ha autorizzato la creazione e la diffusione di numerose storie apocrife, leggende e dicerie, su cui si è costruita una vera e propria «mitologia» del caffè. Una riferisce che, nel X secolo, il sufi berbero Nooruddin al-Shadhili osservò un gruppo di uccelli, rumorosi e vivaci, che si contendevano i frutti di un cespuglio; spinto dalla curiosità, provò a masticare quelle bacche rosse e si accorse che provocarono in lui la stessa vitalità. In un manoscritto persiano del XIV secolo, opera del musicista e poeta Abd al-Qadir Maraghi, si legge la storia di Omar, un discepolo sufi della città di Mocha, che curava i malati con la preghiera. Inviso ai sapienti della scienza medica di allora, fu confinato in una grotta del deserto dove, per sopravvivere, provò a masticare le bacche di alcuni arbusti situati lí vicino; avendole trovate dure e amare provò a bollirle e, quando ne bevve il liquido, fu capace di rimanere senza cibo per giorni interi. Arbitrariamente attribuita alle Mille e una Notte (X-XI secolo), la storia piú famosa compare, in realtà, solo nel 1671 in uno dei primi trattati a stampa dedicati al caffè, De Saluberrima potione Cahue seu Cafe nuncupata Discurscus, opera Nella pagina accanto rilievo che sormonta la Zum Arabischen Coffe Baum («All’albero da caffè arabo»), una coffe house aperta a Lipsia nel 1686. Raffigura un putto che porge una tazza di caffè a un gentiluomo in costume turco. A destra caffè macinato e in grani.

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di Antoine Faustus Nairon, un professore romano-maronita di lingue orientali. Il racconto parla di un pastore di capre etiope di nome Kaldi, che aveva osservato la strana agitazione dei suoi animali dopo aver mangiato le «ciliegie» di un alberello. Pensò di portarsi a casa qualche ramo dell’arbusto, mise le foglie a bollire nell’acqua e ottenne una bevanda disgustosa; provò allora a mangiare le bacche crude, ma le trovò acide e amare. Sospettando un che di maligno nei frutti, li gettò nel fuoco e subito fu avvolto da un profumo cosí intenso e seducente da fargli temere un sortilegio del demonio. Se ne convinse ancora di piú quando la notte non riuscí a chiudere occhio e quindi il giorno dopo si confidò con un monaco (gli Etiopi erano e sono di religione cristiano-copta). Il frate mise a tostare alcune bacche, le frantumò, ne mise la polvere in acqua bollente e ne bevve una tazza prima di coricarsi. Anche lui passò una notte insonne e agitata, per cui ne parlò con l’abate, il quale, incapace di esprimere un giudizio,

sottopose la questione all’attenzione dei confratelli. Non ci volle molto per giungere alla conclusione che quella bevanda amara e nera permetteva di pregare fino a tarda notte e poteva essere ritenuta un dono del Signore.

Prodezze belliche e sessuali Negli Hadith (i racconti di ciò che Maometto ha detto, fatto o visto) si racconta che, mentre giaceva afflitto da una malattia piuttosto seria, il profeta ricevette la visita dell’arcangelo Gabriele, inviato da Allah per fargli bere una bevanda calda e nera come la Ka’aba della Mecca; non appena ebbe vuotato la tazza portagli dal messaggero di Allah, Maometto miracolosamente guarí e si sentí talmente in forze da uccidere 40 guerrieri e soddisfare altrettante donne. Leggende a parte, si ritiene che in Etiopia – in arabo al-Habashah, da cui «Abissinia» – da prima del VI secolo si consumassero le bacche di caffè crude o bollite, fino a ricavarne una specie di zuppa rinfrescante e defatigante. I chicchi verdi mescolati con grasso


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ovino, miele e farina di miglio permettevano il confezionamento di panetti cotti, nutrienti, durevoli e facili da trasportare a dorso di cammello. Con la polpa carnosa esterna ridotta in poltiglia e lasciata fermentare in acqua, era possibile ottenere una bevanda leggermente alcolica e inebriante chiamata qhawa (vino) o kha’wa (che fa volare), forse dal nome del mitico re persiano Kavus Kai, che volò nei cieli su un carro alato.

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La prima citazione letteraria del caffè si deve al medico e filosofo persiano Abu Bakr El Razi, il quale, all’inizio del X secolo operava all’ospedale di Baghdad. Nella sua opera Al-Haiwi (Il Continente), in cui sono descritte in ottica ippocratica tutte le malattie, terapie e rimedi allora conosciuti, compaiono il «bun» (il nome etiope del chicco del caffè) e il «bunchum», cioè l’infuso delle stesse. Lo definisce «caldo e secco e molto giovevole allo

stomaco». Un secolo piú tardi, il grande sapiente persiano Avicenna (Ibn Sina) nel suo Kitab al-Qanun fi l-tibb (Canone della Medicina) precisa: «Quanto alla scelta [della bacca migliore di bun], quella di un colore limone, leggero e di buon odore, è la migliore; Il bianco e il pesante è nulla. È caldo e secco nel primo grado e, secondo altri, freddo nel primo grado. Fortifica le membra, pulisce la pelle e asciuga l’umidità che si trova sotto di essa e dona un odore eccellente a tutto il corpo». luglio

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La pianta potrebbe aver attraversato il Mar Rosso e raggiunto il Sud della penisola araba già nel VI secolo, quando l’attuale Yemen fu invaso dagli Etiopi di Axum, il primo regno cristiano d’Africa. Si è anche affacciata l’ipotesi che un commercio di caffè (crudo) tra Etiopia e Sudarabia fosse attivo nel IX secolo a opera di mercanti somali che si approvvigionavano ad Harar. Si hanno notizie da fonti arabe di mescite di caffè (qahveh khaneh) nello Yemen, alla metà del XII secolo, come luoghi di ristoro, relax, musica e svago, ma, stranamente, nessuna menzione del caffè compare nelle cronache cristiane per tutto il periodo delle crociate.

Una «bevanda sociale»

Cafe House, Cairo, olio su tela di Jean-Léon Gérôme. 1884 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Nel XIII secolo i sufi della Tariqah Shadiliyya, sorbivano l’infuso di caffè crudo per raggiungere la necessaria agilità mentale durante le lunghe veglie notturne e le sedute di preghiere e invocazioni (dhikr). La qualità piú ricercata sembra essere stata quella che un loro imam, Muhammad Ibn Said Al Dhabhani, ancora nel XIV secolo, importava nello Yemen dall’Etiopia. Anche i dervishi Mevleviyè di Turchia ne facevano consumo come energizzante prima delle lunghe e vorticose danze estatiche (sema). L’interdizione coranica al consumo di alcol favorí enormemente l’ascesa del caffè come «bevanda sociale», facile da preparare nelle tende o all’aria aperta, confortante e, poiché realizzata con acqua bollente, estremamente sicura. La natura superstiziosa degli Arabi li portava a ritenere il caffè un vero e proprio talismano contro le avversità, li proteggeva dai brutti incontri nei viaggi e propiziava buoni affari nel commercio. Grazie all’aura di misticismo cosí assunta dal caffè, ne fu autorizzata la preparazione e distribuzione in tutte le moschee del regno musulmano,

inclusi il cortile della Ka’aba alla Mecca e il chiostro della tomba del Profeta. Nel 1511 il governatore della Mecca, Kham Berg, si scagliò contro i fedeli che stavano bevendo caffè nella grande moschea adducendo il pretesto che il Corano proibiva le bevande inebrianti. Il giorno dopo fece bruciare tutte le riserve di caffè della città e chiese al Gran Mufti di emettere una fatwa contro chiunque ne vendesse o consumasse; la sua decisione fu annullata otto giorni dopo dal sultano d’Egitto. Nei trattati arabi di medicina del Quattrocento il caffè viene presentato come diuretico e lassativo e se ne raccomandava l’adozione per curare raffreddori, morbillo, vaiolo e tosse. Il caffè

La pianta e i frutti della Coffea arabica in una tavola tratta da un’edizione dell’opera Unterhaltungen aus der Naturgeschichte di Gottlieb Tobias Wilhelm. 1817.

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CALEIDO SCOPIO conservò questa fama di panacea universale nella sua inarrestabile conquista del mondo. Ecco come il medico bolognese Angelo Rambaldi nel suo Discorso sull’Ambrosia Arabica Overo della Salutare Bevanda Cafè (1691) riferiva il valore medicale della bevanda presso i Turchi e gli Arabi del suo tempo e ne promuoveva l’adozione ai suoi contemporanei: «Il Cafè, dato da bere ai monaci, li teneva tutta la notte desti senza alcuna diminuzione di forze ma a tutti corroborava lo stomaco, asciugava le catarrate, ò flussioni, preservava da calcoli, e podagra, sradicava le ostruttioni, quietava i tumulti delle parti naturali che vuol

dire affetti hipocondriaci, raffrenava gl’isterici, sollevava l’idropici, apriva copiosamente le urine, e purghe alle donne, agiutava le gravide, preservava dalle febri massime intermittenti, col solo fumo, confortava, anzi aguzzava la vista, anzi che presa caldissima, né anche abbauggiava con sollevare vessiche, e faceva effetti, che per essere frà loro contrari, parevan fuor dell’ordine di natura, e stupendi s’aperse il campo alla fama & all’avarizia de’ Mercanti, quali allettati dall’utile ne fecero a tutte parti trasporto per tale guadagno». Nel 1555, due siriani, Shems e Hekeem, aprirono la prima caffetteria a Istanbul e, dieci anni piú tardi, la città ne contava

500. Il solo Palazzo di Topkapi, residenza del sultano e della sua corte, tostava e consumava 800 sacchi di caffè al mese.

Anche in guerra Nella prima metà del Cinquecento i guerrieri ottomani di Solimano il Magnifico, impegnati nelle loro guerre sante di conquista, portavano con sé grandi scorte di caffè, che venne cosí conosciuto come «il vino dei Turchi» – nei Balcani, nell’Europa centrale, nel Nord Africa e in Spagna. Fino all’inizio del XVII secolo ferree leggi e pene severissime imponevano ai mercanti arabi

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Disegno ricostruttivo di una caffetteria turca del XVI sec. Il primo locale del genere venne aperto a Istanbul nel 1555 e, dopo soli dieci anni, se ne contavano oltre 500. La versione turca della bevanda si prepara mescolando acqua, zucchero e polvere di caffè, che vengono poi fatti bollire, fino a ricavare un liquido denso, che può essere aromatizzato con l’aggiunta di spezie macinate. In una caffetteria come quella qui immaginata era anche possibile fumare il narghilè (1) oppure dedicarsi ai giochi da tavolo (2). Il caffè veniva servito in tazze di legno o metallo (3) e il suo consumo costituiva un’occasione importante per la socializzazione (4).

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di esportare il caffè verde solo dopo averlo bollito, per impedire che potesse germogliare in altri territori. Nel 1616, una nave olandese appartenente alla Compagnia delle Indie Orientali sbarcò a Mokha e il suo capitano, Pieter Van der Broecke, riuscí fortunosamente a procurarsi un’intera pianta di caffè, a nasconderla nella stiva e a riportarla ad Amsterdam; da quell’unica pianta ebbero origine le coltivazioni olandesi in Asia e quelle francesi nelle Indie occidentali. Altro contrabbando fruttuoso fu quello, si narra, attuato alla metà del Seicento da

un religioso indiano di nome Baba Budan, il quale, al ritorno da un pellegrinaggio alla Mecca, riuscí a infilarsi nella cintura della veste sette chicchi di caffè non ancora resi sterili; la leggenda vuole che, tornato in India, li seminasse sulle colline di Chikmagalur dando inizio alle estese coltivazioni dei pregiati caffè «monsonati».

La versione egiziana Il primo a illustrare botanicamente la Coffea arabica e a valutarne gli usi terapeutici in una cultura diversa da quella europea fu il medico veneto Prospero Alpini, prefetto dell’Orto Botanico di

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Padova. Nel suo De plantis Aegypti (Venezia, 1592), assieme a una xilografia della pianta priva di bacche, Alpini spiega come il decotto di semi tostati fosse in uso tra la popolazione egiziana: «Gli egiziani usano quei semi che chiamano “bon” per preparare un decotto a cui si dedicano tutti, come da noi avviene con le bevute di vino nelle pubbliche osterie. Essi hanno l’abitudine di berne in abbondanza ogni giorno molto calda, spesso ma soprattutto al mattino a stomaco digiuno. Essi hanno osservato che questa bevanda riscalda lo stomaco e lo rafforza, ma ogni giorno la si utilizza anche per togliere di mezzo le ostruzioni dei visceri. È un rimedio che nelle donne


CALEIDO SCOPIO Uomini impegnati nella tostatura del caffè nella città marocchina di Imintanoute, in una foto del 1945.

agisce immediatamente nel provocare le mestruazioni: esse lo utilizzano molto spesso, caldo e lo bevono a piccoli sorsi quando il flusso è scarso. (...) Alcuni preparano il decotto con gli involucri, o gusci, dei semi suddetti, altri lo fanno con la loro sostanza, e si sostiene che il decotto ottenuto dai gusci sia piú efficace. Ho visto l’albero nel parco di un certo Bey turco, portato dall’Arabia, che era assai simile alla fusaggine o evonimo. La facoltà di questo decotto è fredda, convenientemente mescolata con il secco per quanto riguarda le qualità primarie. A essa è mescolato anche il calore, dato che quei semi sono costituiti da una duplice sostanza, l’una duplice e terrosa grazie alla quale sono condensanti e fortificanti, l’altra calda che si trova nella sostanza sottile (...) che li rende capaci di riscaldare, asciugare e aprire le parti ostruite». Alpini prosegue poi descrivendo i diversi metodi di preparazione della bevanda: «Gli egiziani prendono

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una libbra e mezza di quei nuclei, liberati dai loro gusci, li torrefanno un poco al fuoco; una volta tostati li fanno bollire [interi] in venti libbre d’acqua. Altri invece lasciano i suddetti nuclei, torrefatti e frantumati in pezzetti molto piccoli, in infusione nell’acqua per un giorno; altri ancora, senza averli lasciati in infusione li fanno bollire fino a che la miscela si sia ridotta della metà. Il decotto filtrato viene conservato in vasi di terracotta fermamente chiusi fino al momento dell’uso. Nello stesso modo preparano il decotto con i gusci dei semi (...) e lo cuociono in venti libbre di acqua di fonte finché il liquido si riduce della metà; e lo bevono assai caldo e bollente».

La passione del papa L’opera stimolò la curiosità dei mercanti veneziani che iniziarono a importare da Costantinopoli modeste ma costosissime quantità di caffè, destinate agli esclusivi salotti

romani; non fu proprio un successo, ma bastò a stimolare la malevolenza della Curia romana, al punto che il collegio cardinalizio sollecitò papa Clemente VIII Aldobrandini – che aveva appena emesso la scomunica per chiunque fosse sorpreso a fumare in chiesa – a bandire la «nera bevanda dei maomettani», donata loro dal maligno per sostituire il vino santificato da Cristo. Sfortunatamente per i porporati, pare che, a differenza del tabacco, il caffè piacesse al pontefice, il quale non solo respinse la loro querela, ma decretò, con la tazza in mano, che l’aroma del caffè era troppo gradevole per essere opera del maligno, e che sarebbe stato un peccato se i musulmani ne avessero avuto il diritto esclusivo. Si vociferava che Clemente VIII avesse addirittura proposto una finta cerimonia di battesimo per ingannare il diavolo, facendo diventare «cristiano» anche il caffè. La prima caffetteria europea comparve nel quartiere di Dorcol, a Belgrado, nel 1522, pochi mesi dopo la conquista della città da parte di Solimano il Magnifico; era una «kafana», poco piú di un piccolo chiosco circondato da tavoli e panche all’ombra di grandi alberi. A Venezia il primo importante carico di caffè giunse da Alessandria nel 1615, ma rimase poco piú che una curiosità, riservata ai viaggiatori che tornavano dall’Oriente e venduta a peso d’oro da qualche speziale; fu necessario attendere il 1720 per vedere inaugurato in piazza San Marco il Caffè Florian, il piú antico caffè tuttora in attività al mondo. Benché già nel 1590 la Compagnia britannica delle Indie orientali caricasse sacchi di caffè nei porti yemeniti ed egiziani, solo nel 1652 un turco di nome Jacob aprí nei luglio

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capitolare, convinse il borgomastro a resistere ancora qualche giorno con un ultima disperata resistenza in attesa dei rinforzi. Il suo atto eroico fu premiato con la donazione di una consistente somma di denaro, di un terreno per costruire la sua casa e di 300 sacchi di «mangime per i cammelli» – in realtà caffè – abbandonati dai Turchi in fuga. Ottenne anche l’autorizzazione all’apertura di un locale, il Zur Blauen Flasche («Alla bottiglia blu»), in cui serviva il caffè non «alla turca», bensí filtrato e dolcificato con panna e miele. Decise di mettere a disposizione dei suoi clienti tutti i giornali della città e, non contento, chiese a un suo amico pasticcere di creare un dolcetto di pasta sfoglia che celebrasse la sconfitta degli Ottomani; nacque cosí il Kippfel – per noi Italiani il «cornetto» – per i Francesi il «croissant», ovvero

pressi di Oxford la prima coffee house. Poco inclini al sapore amaro del caffè, i Londinesi iniziarono a mascherarlo, aggiungendovi latte e miele e decretandone il successo: solo dieci anni piú tardi si contavano a Londra 82 caffetterie, molte delle quali divennero celebri anche come luoghi di dibattito politico e culturale.

Ci vediamo alla Bottiglia blu La prima caffetteria a Vienna fu aperta nel 1683, al numero 6 della Domgasse, da un ucraino-polacco, Franciszek Kulczycki, diplomatico e interprete di turco e serbo per conto del governo viennese. Durante il feroce (e terzo in due secoli) assedio dell’esercito ottomano alla città,

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In alto un venditore di caffè in una incisione della serie Études prises dans le bas peuple ou les Cris de Paris di Edmé Bouchardon. 1737-1746. Parigi, Bibliothèque des arts décoratifs. A destra caffettiera inglese in porcellana della manifattura di Derby. 1765-1770. Kulczycki, travestito da turco, riuscí ad attraversare le linee nemiche e a prendere nota della consistenza e dell’organizzazione delle truppe avversarie; proseguí la sua missione fino all’accampamento di Carlo V di Lorena per sollecitarlo a organizzare la controffensiva; ritornato avventurosamente in una Vienna ormai pronta a

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CALEIDO SCOPIO Un momento della cerimonia del caffè a Lalibela, in Etiopia. Secondo la tradizione, la Coffea sarebbe originaria degli altipiani del Paese africano.

la mezzaluna crescente che campeggiava e campeggia ancora sulla bandiera turca. In Francia, Jean de la Rocque, un mercante che aveva soggiornato a Costantinopoli, fece conoscere il caffè a Marsiglia intorno al 1644. A Parigi la bevanda giunse quindici anni dopo, al seguito del viaggiatore e naturalista Jean de Thévenot al rientro dai suoi lunghi viaggi e soggiorni in Medio Oiente. Nondimeno, il caffè rimase poco piú di una curiosità fino al 1669, quando giunse nella capitale il nuovo ambasciatore ottomano alla corte del Re Sole, Suleiman Aga, organizzatore di ricevimenti «turcheschi» con valletti in costume che offrivano agli ospiti il caffè in tazze di porcellana giapponese. Re Luigi XIV, geloso dal successo del Turco, sostituí a Versailles il caffè con la cioccolata in tazza, ma una parte della corte e tutta la ricca borghesia cittadina rimase affascinata da quel grosso orientale barbuto, che ostentava lusso e raffinatezze esotiche. Perfino

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Molière si affrettò a mettere alla berlina quella profusione di tappeti, turbanti, caffetani e salamelecchi di cui facevano sfoggio i nuovi parvenus parigini, ma ormai aveva preso piede la moda dei ricevimenti allietati da musica levantina, caffè e amuse-bouche speziati.

Come a Costantinopoli Grandi e regolari spedizioni dall’Egitto e dal Levante fecero scendere considerevolmente il prezzo del caffè, che passò dalle 80 lire/libbra del 1660 – pari a due mesi di salario di un operaio specializzato – a 5 lire/libbra nel 1670. In quell’anno l’armeno Pascali Haroukian aprí un caffè alla fiera di St. Germain, dove vendeva una tazza di «liqueur turquesque» per soli due soldi; il locale era simile a quelli che aveva visto a Costantinopoli: una nicchia buia dove si fumava, si bevevano pessima birra e caffè indegnamente adulterato; fu costretto a chiudere e a trasferirsi a Londra, dove ebbe maggior successo. La buona

società borghese reclamava ben altro, cosí un siciliano di nome Francesco Procopio, che aveva fatto il cameriere da Pascali l’armeno, nel 1677 inaugurò un piccolo locale in rue de Tournon, dove offriva non solo caffè, ma anche sorbetti, dolci e una copia della Gazette de Paris con le notizie del giorno. Gli affari prosperarono al punto che Procopio acquistò un locale di fronte alla Comédie Française. Arredato in modo lussuoso, il Café Procope divenne nel tempo il punto di riferimento per molti scrittori della capitale come Voltaire, Diderot, Rousseau, fu frequentato da Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, dai rivoluzionari Danton e Marat; ancora oggi rimane uno dei punti d’incontro parigini delle arti e delle lettere. Oltremanica, nel 1685, un certo Edward Lloyd aprí una caffetteria sulla Great Tower Street di Londra. Sei anni piú tardi si trasferí al 16 di Lombard Street, nel cuore del quartiere finanziario della City. Ben presto, armatori, marinai, agenti di borsa, avvocati e assicuratori elessero il locale a punto di ritrovo. Nel 1696, su quei tavolini ingombri di tazzine fumanti, comparve il primo numero del Lloyd’s Journal, un foglio di notizie e previsioni sul commercio marittimo stilato dallo stesso Lloyd, basandosi sulle segnalazioni e indiscrezioni fornite della clientela. Tra un caffè e un pasticcino, commercianti, armatori e naviganti aggiornavano ogni giorno il registro dei naufragi e quello delle navi arrivate sane e salve a destinazione. Dov’era il Lloyd’s Coffee House oggi sorge un supermercato, ma i Lloyd’s of London sono diventati la piú grande compagnia assicurativa e riassicurativa del mondo. luglio

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Quando i santi prendevano le armi

Nazario, Celso e il groviglio delle spade di Paolo Pinti

L’

esame di uno dei piú bei quadri di Tiziano, il Polittico del Cristo risorto, piú conosciuto come Polittico Averoldi, conservato nella collegiata dei Ss. Nazaro e Celso a Brescia, offre lo spunto per ripercorrere le vicende dei due santi e analizzare le armi presenti nei quadri che li raffigurano. Il polittico è firmato e datato, sulla colonna presente nel pannello con san Sebastiano, «Ticianus Faciebat / MDXXII» e fu commissionato all’artista dal prelato Altobello Averoldi, da cui il nome col quale oggi lo conosciamo. La travagliata storia dell’opera ci è nota attraverso la corrispondenza, pervenutaci, tra il duca di Ferrara, Alfonso I d’Este, e il proprio ambasciatore a Venezia, Jacopo Tebaldi. Si tratta, inizialmente, di solleciti a Tiziano perché porti a termine i dipinti destinati al duca. Il ritardo veniva giustificato con il notevole impegno – «longa praticha» – richiesto dal polittico, che gli era stato commissionato nel 1519 per la chiesa dei Ss. Nazaro e Celso a Brescia, dove tuttora lo si può ammirare. In verità, l’artista aveva anche altri notevoli impegni, ma questo era probabilmente il piú importante, con una sua storia. Averoldi non era un prete qualsiasi, ma era vescovo di Pola, nonché nunzio apostolico di Leone X presso la Serenissima: il pittore cadorino, quindi, doveva far fronte al proprio impegno con zelo e con tutta la sua

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arte. Il risultato fu eccezionale, con un San Sebastiano di straordinaria perfezione anatomica. Il pannello col santo era terminato nel 1520, da quanto scrive il Tebaldi, che peraltro suggerisce ad Alfonso I di acquistare la

Polittico Averoldi, olio su tavola di Tiziano Vecellio, terminato nel 1520-22. Brescia, collegiata dei Ss. Nazaro e Celso. Fu l’unico polittico dipinto dall’artista, peraltro in un’epoca ormai molto avanzata per questo tipo di lavori.

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Particolare del Polittico Averoldi, con il pannello contenente le figure del committente (Averoldi) e dei santi Nazario, piú anziano e con la barba, in secondo piano, e Celso, in armatura, splendidamente raffigurata. tavola stessa, sostituendola con una simile, ma con piccole varianti. Lo scambio epistolare fra l’ambasciatore e il duca, avente per oggetto una vera e propria truffa ai danni del nunzio apostolico, è davvero interessante, ma, alla fine, Alfonso I lascia cadere la cosa, probabilmente per non irritare il primo committente, personaggio politicamente importante.

Un vero capolavoro Lo svolgersi degli avvenimenti in merito alla «copia» non è chiarissimo, ma sappiamo che il polittico venne installato a Brescia nel maggio del 1522. E, da quell’anno, si offre al mondo come l’opera insigne di uno dei maggiori artisti del Cinquecento. Tuttavia, non è il pannello con il celebratissimo San Sebastiano a interessarci, bensí quello simmetrico sulla sinistra, con tre personaggi, uno dei quali indossa un’armatura (rectius: mezza armatura, perché protegge il busto e gli arti superiori, ma non quelli inferiori), estremamente ben eseguita, del tutto fedele al modello reale. Chi sono queste tre figure? Il committente, Averoldi, in ginocchio, san Celso, in armatura, e, in secondo piano, uno con la barba, san Nazaro o Nazario. I due santi, Celso e Nazario, sono venerati insieme, insieme vissero parte della loro vita e condivisero lo stesso martirio. Non ci sono però fonti storiche degne di questo nome sulle loro vite: la leggenda parla di un Nazario, cittadino romano, appartenente a una famiglia ebrea e di professione legionario, che fu addirittura

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CALEIDO SCOPIO A sinistra santino con Nazario e Celso, quest’ultimo con elmo da legionario romano, anche se la leggenda sembra escludere un suo passato come militare. A destra Adorazione dei pastori con i santi Nazaro e Celso, olio su tela del Moretto (al secolo, Alessandro Bonvicino). 1540. Brescia, collegiata dei Ss. Nazaro e Celso a Brescia. I santi sono in armatura completa, cinquecentesca, con tanto di sproni. Si distinguono per la loro età: a destra san Nazario, piú maturo, e a sinistra san Celso. Un mistero questo «status» di Celso, non suffragato da alcuna leggenda.

San Nazario, affresco di Giovanni Antonio Merli. 1480. San Nazzaro Sesia (Novara), abbazia dei Ss. Nazario e Celso. Risulta qui inspiegabile la scelta dell’artista di ritrarre il santo nei panni di un nobile a cavallo.

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seguace di san Pietro, battezzato da papa Lino (10-76, primo successore di Pietro), che, forse, per metterlo in salvo dalle persecuzioni, lo inviò da Roma in Lombardia. In un secondo momento, Nazario si dedicò all’evangelizzazione delle Gallie e in questo contesto una matrona locale gli affidò un giovinetto di soli nove anni, Celso, affinché fosse educato nella fede cristiana. A un certo punto i due furono arrestati quali cristiani: di Celso non si sa nulla, mentre per Nazario la tradizione vuole che non fu torturato, in quanto cittadino romano, ma che venne portato a Roma per essere processato. Come di norma in casi del genere, incredibilmente numerosi, Nazario rifiutò di sacrificare agli dèi e fu, pertanto, condannato a morte, secondo una tradizione, dal governatore di Ventimiglia. Del comportamento del ragazzo Celso non si fa cenno e si dice solo che fu condannato alla pena capitale insieme al suo mentore, col quale fu imbarcato su una nave per essere portato al largo e lí affogato. I due furono scaraventati in mare, luglio

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ma riuscirono miracolosamente a camminare sull’acqua, mentre una furiosa tempesta si abbatté sulla nave, spaventando i marinai, che si rivolsero a Nazario chiedendogli aiuto: la bufera si placò subito e riuscirono tutti a sbarcare a Genova, dove Nazario e Celso iniziarono l’evangelizzazione della Liguria, intorno agli anni 66 e 67, arrivando fino a Milano, dove furono arrestati e di nuovo condannati a morte, stavolta per decapitazione, dal prefetto Antolino, eseguita nel 76. Nella biografia di sant’Ambrogio

risulta che questi, nel 395, rinvenne i corpi dei due martiri, sepolti in un campo poco fuori Milano. Inutile chiedersi come possa aver identificato le spoglie come di martiri e, addirittura, attribuirle a Nazario e Celso...

Tradizione e incongruenze Da questa leggenda non emerge in alcun modo la figura di Celso, che pure subí la stessa sorte di Nazario. Di certo, solo quest’ultimo poteva essere stato, oltre che cittadino romano, anche un militare e,

pertanto, serebbe logico vederlo rappresentato, nella pittura, in veste di soldato, mentre a volte è Celso, o anche Celso, a esserlo. Nel dipinto di Tiziano Vecellio (vedi foto alle pp. 106-107) la cosa è chiara, perché il personaggio in armatura è giovane, mentre quello sullo sfondo è decisamente piú anziano e, quindi, dev’essere Nazario. Da dove trae origine questa iconografia? Non certo dalle tradizioni che, pur con molte varianti, concordano nel descrivere Celso come un bambino della Gallia, certamente mai stato

Madonna con Bambino con San Nazario e San Celso, olio su tela di Paolo Camillo Landriani. 1603. Novate Milanese (Milano), oratorio dei Ss. Nazaro e Celso. Entrambi i martiri sono in abiti militari romani, con corazze cosiddette «all’eroica», e impugnano una spada, di foggia decisamente piú moderna. Chiaro il riferimento all’arma con la quale furono decapitati, ma molto meno chiaro quello all’esercito romano per Celso.

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CALEIDO SCOPIO Martirio dei Santi Nazario e Celso a Milano nel V secolo d.C., olio su tela di Giulio Cesare Procaccini. 1600-1610. Milano, S. Maria dei Miracoli presso S. Celso. Nazario, piú vecchio e con la barba, è già stato decapitato, da un carnefice armato di una bella storta, mentre Celso, molto piú giovane, sta per esserlo.

soldato, visto che visse fino alla morte con Nazario predicando il cristianesimo. Nelle rare raffigurazioni dei due santi, possiamo vedere un uomo anziano e uno molto piú giovane, senza abiti caratterizzanti, oppure con un elmo romano sul capo di quello giovane, cioè Celso (come nel santino a p. 108, in alto, a sinistra). Torna la figura di Celso come soldato romano, senza un perché, mentre Nazario – che lo era stato davvero – ha vesti civili. Per Nazario, troviamo anche un

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affresco attribuito a Giovanni Antonio Merli (notizie dal 1474ante 1507), del 1480, nell’abbazia dei Ss. Nazario e Celso a San Nazzaro Sesia (Novara), che lo ritrae a cavallo, in abiti signorili (vedi foto a p. 108, in basso): nulla di piú lontano dalla tradizione. Nell’oratorio dei Ss. Nazaro e Celso a Novate Milanese (Milano) c’è una Madonna con Bambino con San Nazario e San Celso (1603) di Paolo Camillo Landriani (1560-1618 circa), con i due santi in abiti di soldati romani, entrambi con la palma del martirio e con

una spada ciascuno, sicuramente a simboleggiare l’arma del loro martirio (vedi foto a p. 109). Sono però della stessa età e la circostanza non ha una spiegazione plausibile.

Armati di tutto punto Nella Adorazione dei pastori con i santi Nazaro e Celso, del 1540, del Moretto (al secolo, Alessandro Bonvicino, 1492/1495-1554) nella collegiata dei Ss. Nazaro e Celso a Brescia (vedi foto a p. 108, in alto, a destra) i due sono, invece, di età diverse e indossano entrambi un’armatura completa, con tanto di spada: anche qui, non si comprende il perché di tali armature, del tutto estranee alla tradizione agiografica, almeno per quanto riguarda Celso. In una statua di san Celso a Varazze, il santo – ben identificato con il suo nome sulla base – sembra avere un abito militare di antico romano, e scopre il ginocchio sinistro, apparentemente ferito. Nel Martirio dei Santi Nazario e Celso a Milano nel V secolo d.C. di Giulio Cesare Procaccini, conservato a S. Maria dei Miracoli presso S. Celso a Milano (vedi foto in questa pagina), nell’esagerato groviglio di corpi, si vede bene la robusta storta (arma da taglio lunga, con lama curva) in mano a uno dei carnefici. I due martiri sono di età differenti, ma non hanno segni distintivi. Nell’iconografia di questi santi la presenza delle spade è perfettamente in linea con la prassi di raffigurare gli strumenti del martirio, ma gli abiti militari romani – o, comunque, le armature coeve all’epoca dei dipinti – non si spiegano per Celso, che di sicuro soldato non era mai stato. Questo evangelizzatore non ha un passato guerresco e le armature – peraltro bellissime e fedeli nelle opere del Vecellio e del Moretto – non si giustificano. Anzi, conoscendo la tradizione agiografica dei due, possono risultare fuorvianti nell’identificazione dei personaggi. luglio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Paolo Ciampi In cammino con Matilde Canossa e gli altri luoghi della donna che sconfisse l’Imperatore Mursia, Milano, 222 pp.

17,00 euro ISBN 978-88-425-6678-6 www.mursia.com

Impostato come racconto di viaggio, sul sentiero matildico del Volto Santo, nel tratto da Canossa a Lucca, questo libro

unisce la descrizione del paesaggio, con i castelli e le case torri medievaleggianti (anche se non sempre dell’epoca di Matilde di Canossa, come quello di Rossena, che è del Duecento), i boschi, i castagneti, le terre alte e le montagne del crinale appenninico, con il ricordo della storia della Contessa, che segna questi luoghi, e le riflessioni di un camminatore colto, Paolo Ciampi (1963), esperto di viaggi. Scritto con piglio

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narrativo elegante e rapido, il lettore è condotto in questo viaggio spazio/ temporale dalle rovine romane di Luceria, ai ricordi riaffioranti della Repubblica partigiana di Montefiorino, passando per il governo di queste terre di Ludovico Ariosto e Francesco Guicciardini. Frequenti sono i riferimenti letterari contemporanei – Attilio Bertolucci, Giovannino Guareschi, Raffaele Crovi, Dino Campana –, cosí come a protagonisti della scena musicale moderna, quali i Jethro Tull e i Pink Floyd. E, nelle soste, l’assaggio delle eccellenze gastronomiche di queste terre, tutte presenti nel ricordo di Matilde: il lambrusco di Sorbara (dove ella sconfisse le truppe di Enrico IV nel 1084), l’aceto balsamico tradizionale donato da suo padre Bonifacio all’imperatore Enrico III, il parmigianoreggiano, non cacio (termine latino), ma formaggio, nome che compare per la prima volta in una pergamena del 1159 a Corniano di Bibbiano, località vicino al castello matildico di Bianello (Quattro Castella).

E qualche cenno piú impegnato: alla difesa del paesaggio, alle tradizioni piú autentiche, alla pace che solo il compromesso può donare, come Matilde cercò di fare nel famoso incontro del gennaio 1077. Pace che risuona nella Casa del Tibet che un sognatore, Stefano Dallari, costruí su di un villaggio matildico abbandonato. Una parte dell’Italia migliore, scrive il fiorentino Ciampi, terra gentile, di gente semplice, che si stupisce del suo solitario pellegrinare (etimo: per agros), in questo cammino nel silenzio, che sale da Carpineti, attraverso Marola, verso la Pietra di Bismantova, e poi giú alla pieve di Toano, lungo la valle del Secchia, e di nuovo a salire su verso Fontanaluccia (Frassinoro) e il Passo di San Pellegrino in Alpe, e quindi ancora a scendere verso Barga, che riecheggia dei versi del Pascoli, e il Ponte della Maddalena (o di Matilde o anche del Diavolo), a Borgo a Mezzano, per giungere al Volto Santo nella cattedrale di S. Martino, a Lucca. E con lui, scrive, solo il poema di Donizone,

ma c’è ben altro, e anche se il libro è privo di qualsiasi riferimento bibliografico, non è difficile riconoscervi ampie letture a supporto della ricostruzione storica della vicenda canossiana. Paolo Golinelli Alessio Innocenti Medioevo Immaginato

Rizzoli, Milano, 224 pp.

29,00 euro ISBN 9788891839824 www.rizzolilibri.it

Alessio Innocenti si interroga se il Medioevo sia stata un’epoca buia e decadente oppure un mondo fantastico, popolato da cavalieri e draghi, a ennesima riprova di come l’età di Mezzo non smetta di affascinarci, in perenne oscillazione

tra questi due piatti della bilancia. Un fenomeno del resto confermato dal grande successo di film e serie televisive di ambientazione

medievale, cosí come dei pellegrinaggi sugli antichi cammini e dei parchi tematici. Il libro è suddiviso in otto capitoli che affrontano i seguenti temi: cavalieri, re, maghi; draghi, sirene, sciapodi (esseri mitologici dotati di una sola gamba e di un solo enorme piede, che si supponeva abitassero i Paesi asiatici); scheletri danzanti e incontri inquietanti; chiostri e manoscritti miniati; giardini e rovine gotiche; cattedrali, castelli e palazzi; sogno e nostalgia, il Medioevo dei preraffaelliti; fate e regni incantati. Grazie anche al ricco apparato iconografico riusciamo cosí a comprendere meglio quest’epoca storica e il modo in cui nei secoli questo mondo affascinante è stato raccontato, immaginato e sognato. Particolarmente interessanti risultano l’analisi dell’evoluzione nel tempo del mito di re Artú e del mago Merlino e la rievocazione di varie curiosità, fra cui il completamento della facciata gotica del duomo di Milano a opera di Napoleone all’inizio dell’Ottocento. Il libro si trasforma cosí in una sorta di luglio

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Baedeker medievale e, alla fine, troviamo molti suggerimenti su luoghi da visitare, libri da leggere e film da guardare, citati nei vari capitoli. Con stile veloce e accattivante, l’autore guida il lettore in un viaggio fantastico in un mondo lontano, ma per sempre vicino a noi, grazie ai manoscritti, ai dipinti, alla musica, alle sculture e alle opere architettoniche. Corrado Occhipinti Confalonieri

fatti e personaggi del millennio medievale, ma, di capitolo in capitolo, l’autore amplia considerevolmente la prospettiva, suggerendo confronti con l’età moderna e contemporanea. Stefano Ciliberti Nella rassegna sono Quel vecchio rasoio compresi fenomeni ed ancora buono eventi scelti fra quelli Storie dal Medioevo per che piú connotarono capire il presente la storia e la cultura Edizioni Dedalo, Bari, dell’età di Mezzo. 192 pp., ill. b/n Basti pensare che 17,00 euro l’apertura è dedicata ISBN 978-88-220-6353-3 al culto delle reliquie, www.edizionidedalo.it che, alimentato «Folgorato» dal dalla credenza Medioevo, dopo popolare, non tardò aver conseguito un a trasformarsi in un dottorato di ricerca fiorente business. Fra in fisica ed essersi le storie che seguono, occupato di finanza possiamo qui ricordare quantitativa, Stefano le pagine nelle quali Ciliberti confeziona Ciliberti tratteggia un una raccolta di profilo di Guglielmo il storie assai godibile, Maresciallo, il «miglior ricca di notizie e cavaliere del mondo», che può costituire lo oppure il capitolo in spunto per molteplici cui viene ripercorsa Ondas. Martín Codax, la storia dei concili approfondimenti. Cantigas de Amigo Come si intuisce dal indetti dalla Chiesa, Vivabiancaluna Hamon dei quali titolo – nel quale siBiffi, Pierre in occasione Arcana (A390), 1 CD furono affrontate allude a Guglielmo di www.outhere-music.com Occam e al suo questioni dottrinarie di «rasoio» –, a fare primissimo piano. O, da innesco sono ancora, le straordinarie

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fortune e gli altrettanto clamorosi tracolli delle compagnie finanziarie sorte fra Tre e Quattrocento. Un panorama, dunque, assai variegato, attraverso il cui racconto l’autore contribuisce a rafforzare la visione di un Medioevo ben lontano dallo stereotipo di epoca fatta di regressione e povertà culturale. Stefano Mammini Anna Maria Riccomini e Claudia Magna Girolamo da Carpi disegnatore Il taccuino romano della Biblioteca Reale di Torino

Officina Libraria, Roma, 224 pp., ill. col.

38,00 euro ISBN 978-88-3367-241-0 www.officinalibraria.net

Originario di Ferrara, Girolamo di Carpi (1501-1556) fu pittore e architetto, ma anche abile disegnatore. E di questa sua dote dà prova la pubblicazione dei fogli del cosiddetto Taccuino romano, una

raccolta oggi divisa fra la Biblioteca Reale di Torino, il British Museum di Londra e il Rosenbach Museum & Library di Filadelfia. Il primo dei tre istituti ha da tempo avviato la catalogazione sistematica dei suoi fondi e il volume di Anna Maria Riccomini e Claudia Magna è appunto uno degli esiti di questa operazione. Le due studiose antepongono alle schede di catalogo dei disegni un profilo biografico di Girolamo e la ricostruzione delle vicende moderne del Taccuino. Pagine che, soprattutto nel primo caso, permettono di collocare la vicenda umana e professionale dell’artista nel contesto storico e culturale del primo Cinquecento, un’epoca di notevole spessore e rilevanza. Le successive riproduzioni dei disegni «parlano» da sole, evidenziando un talento cristallino e, soprattutto, la particolare sensibilità nei confronti dell’arte antica, di cui Girolamo, proprio grazie al soggiorno romano, divenne uno dei massimi esperti del tempo, lavorando per papa Giulio III e per il cardinale Ippolito d’Este. S. M.

Carlo Tosco Le vie delle cattedrali gotiche il Mulino, Bologna,

276 pp., ill. b/n

16,00 euro ISBN 978-88-15-38804-9 www.mulino.it

L’incendio che nel 2019 ha devastato la cattedrale parigina di Notre-Dame è il punto di partenza scelto da Carlo Tosco per un viaggio condotto nella convinzione che «Comprendere la storia

culturale del gotico significa comprendere un fenomeno che ha segnato in profonidtà l’identità europea». Il percoso si snoda soprattutto tra Francia e Inghilterra, Paesi nei quali si concentrano le espressioni piú significative dell’arte e dell’architettura gotica, ma non tralascia il Duomo di Milano, simbolo di quello che l’autore definisce il «problema aperto» del gotico italiano. S. M.

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