Antiquitatum variarum volumina XVII

falsificazione storica del frate domenicano Annio da Viterbo
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Antiquitatum variarum volumina XVII[2] ("Diciassette volumi di antichità varie") è una ponderosa opera pubblicata nel 1498 sotto il titolo originale di Commentaria fr. Ioannis Annii Viterbiensis super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium[3] (Roma: Eucharius Silber, 1498). L'opera si presentava come una sterminata compilazione di antichissime cronache ritrovate, accompagnate dal commento del compilatore, ma venne in maniera postuma accusata essere una complessa e ingegnosa falsificazione ordita dal frate domenicano Annio da Viterbo (pseudonimo umanistico di Giovanni Nanni, 1437[4]-1502), erudito quattrocentesco.

Antiquitatum variarum volumina XVII a venerando et sacrae theologiae et praedicatorii ordinis professore Ioanni Annio[1]
Titolo originaleCommentaria fratris Joannis Annii Viterbiensis super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium
Altri titoliAntichità di Annio
Una pagina del Antiquitatum variarum volumina XVII in una ristampa del 1515
AutoreAnnio da Viterbo
1ª ed. originale1498
Generetrattato
Lingua originalelatino

L'opera, nota anche come Antichità di Annio, intendeva pubblicare gli annali dei sacerdoti caldei, egizi e altri scritti di filosofi greci come supplemento alla cronologia biblica, e propose una visione radicalmente nuova della storia universale, in cui le tradizioni caldea, aramea ed egizia venivano direttamente connesse e riconciliate con le radici della storia d'Europa. Venne accusato di falso per avere con il suo scritto messo da parte l'intera tradizione culturale e storiografica greca. In realtà la componente greca costituisce gran parte dell'opera, e personaggi greci come Fetonte vengono collocati sul fiume Eridano padano proprio in accordo con le storie greche.

L'opera riscosse una grande fortuna, con numerose edizioni a stampa, anche in volgare, valendogli molte onorificenze da parte di papa Alessandro VI, che lo nominò Gran Maestro del Sacro Palazzo. Ma molto tempo dopo la sua morte, nel secolo successivo alla pubblicazione, venne tacciato essere una colossale falsificazione. Gli effetti dell'opera si protrassero comunque fino al XVII secolo (ne fa uso, ad esempio, Athanasius Kircher[5], seppure in maniera paradossale[6]) e, in misura occasionale, fino al XVIII secolo. Questo strascico prolungato ha costretto gli studiosi che intendevano screditarlo a dover ripetutamente ritornare sulla dimostrazione della falsità dell'opera, con una ferocia tale da non permettere all'opera la riabilitazione nemmeno dopo le scoperte archeologiche otto-novecentesche che hanno riesumato le tavolette sumere che confermavano parte dei racconti da lui attribuiti a Beroso, insieme alla scoperta dei materiali costruttivi come il bitume da lui citati, che all'epoca dello scrittore erano sconosciuti, tant'è che lo stesso Sansovino, interprete in una nota esplicativa, ipotizzava si trattasse di un tipo di argilla. Lo stesso dicasi per le prove archeologiche relative ai cinque diluvi riportati dall'autore nelle sue cronache di Beroso, che non hanno minimamente condotto a un cambio di atteggiamento nei riguardi del testo.[7]. Non è mancato un tentativo di riabilitazione novecentesca da parte di un appartenente al suo stesso ordine domenicano[8] né, infine, una pubblicazione accademica su una rivista scientifica peer reviewed che fa riferimento ai resoconti di Beroso di Annio.

Il contenuto del libro è di portata così vasta e precisa che è stato infatti molto difficile convincere i lettori che una mente umana fosse capace di inventare informazioni del genere (annali reali con nomi, anni, luoghi, materiali che si sono ritrovati solo 500 anni dopo con i grandi scavi, e lui non poteva conoscere se non dalle effettive cronache del sacerdote caldeo) ma ciò non impedì lo sforzo di discredito, che riuscì bene. Veniva però specificato, nello screditare, che l'opera di Annio non fosse in effetti equiparabile a una semplice "falsificazione", ma a un processo creativo di "reinvenzione simbolica di tradizioni", in grado di toccare a fondo le "corde [...] della sensibilità del tempo", come dimostra la "vasta e tenace fortuna" che il lavoro di Annio era destinato a incontrare in tutta Europa[4].

Contenuti

 
Rodrigo Borgia (Papa Alessandro VI), fu lo sponsor delle fortune di Annio

I 17 volumi si presentano come una monumentale opera storica, in forma di compilazione di testi antichissimi, che Annio affermava di aver scoperto in parte a Genova, dove gli sarebbero stati mostrati da un monaco armeno di nome Giorgio[9], e in parte a Mantova[10], dove, diceva, sarebbero stati raccolti da un certo Guglielmo intorno al 1315[9]. L'opera fu pubblicata in due versioni, con e senza commento[10].

La compilazione si sviluppava su 17 volumi, il primo dei quali conteneva un sommario dell'opera e il repertorio delle auctoritates e delle fonti, da lui utilizzate, alla maniera di Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia[4]. Nel primo libro, l'autore fornisce anche una succinta spiegazione del senso dei volumi successivi della sua ricostruzione[4]. I rimanenti 16 raccoglievano una mole di scritti o frammenti provenienti da una serie di cronache presumibilmente scritte a partire dal 1493[11] (e fino alla pubblicazione nel 1498), e da lui attribuite a una congerie di autori pagani pre-cristiani: il caldeo Beroso, l'egiziano Manetone, Metastene di Persia (non Megastene[9], storico greco dell'India menzionato da Flavio Giuseppe), Filone Giudeo (Filone di Alessandria), Archiloco, Senofonte, Mirsilo di Metimna, Fabio Pittore, Catone il Censore, Gaio Sempronio Tuditano, Antonino Pio[9]:

  1. Myrsilius Lesbius, De origine Italiae et Tyrrhenorum (o De origine Italiae et Turrenae);
  2. M. P. Cato, De origine gentium et urbium Italicarum;
  3. Archilochus graecus, Epithetum de temporibus;
  4. Metasthene, De judicio temporum et annalium Persarum (o De iudiciis temporum...);
  5. Philo Judaeus, Breviarium de temporibus;
  6. Xenophon, De aequivocis (o Super aequivoca Xenophontis);
  7. Caius Sempronius, De chorographia sive descriptione Italiae et eius origine;
  8. Quintus Fabius Pictor, De aureo saeculo et de origine urbis Romae;
  9. Antoninus Pius, Itinerarium;
  10. Berosus Babylonicus, Quinque libri Antiquitatum (o Antiquitates);
  11. Manetho, Supplementum ad Berosum (o Supplementum pro Beroso);
  12. Decretum Desiderii regis Italiae.

Importanti sono anche il libro II (De institutionibus Annianis de aequivocis) e il XVII (Annianae XL quaestiones, dedicato al cugino Tommaso di Pietro).

L'opera proponeva ai dotti di tutta Europa una visione radicalmente diversa della storia antica del Mediterraneo giudaico-cristiano[12]. Secondo questa ricostruzione, il sumero Noè, sceso sul monte Ararat in Armenia, si sarebbe stabilito prima lì (dove in seguito vennero scoperte le vestigia della civiltà di Urartu, in cui infatti comparivano elementi iconografici identici a quelli sumeri ed etruschi) per poi spostarsi in Italia a un secolo dal Diluvio universale, dove fondò la civiltà etrusca, e dove avrebbe insegnato l'arte del vino, dell'idraulica, dell'architettura e della metallurgia. Tutti elementi fondamentali della civilizzazione etrusca poi e sumera ancora prima[9]. In seguito i suoi figli sarebbero da lì partiti per fondare le altre grandi civiltà, in Egitto, in India, nella Margiana, e a Babilonia, oltre che in Europa, ma morì in Etruria, dove veniva chiamato Iano (da cui Giano), che veniva rappresentato come un doppio volto, vecchio da una parte e giovane dall'altra, a significare che aveva visto i tempi sia precedenti che successivi al diluvio. Come Pontifex maximus, avrebbe prefigurato il sacerdozio, il rito romano e la dignità del papato[9]. Avrebbe assunto come soprannome quello di Janus (Giano, divinità romana priva di un corrispondente greco), un nome che permetteva anche di ricollegarlo etimologicamente all'invenzione del vino (yayin in ebraico)[9]. Il che era anche confermato dai passi biblici in cui Noè scopre il vino, ed i suoi figli approfittano sessualmente di lui per la sua ubriachezza.

A Roma, secondo il commento di Annio, andava la responsabilità di aver abbandonato la pia tradizione noaica per abbracciare le fallaci sofisticherie del pensiero greco, falsificando la storia universale mediante l'affermazione della menzognera superiorità greca[9]. In effetti Roma conquistò l'Etruria, che già aveva rapporti con la Grecia, e poi assimilò la propria religione a quella greca. Ma l'opera spiega che il medesimo pantheon era anche presente in Egitto, come constatato dagli studiosi, che infatti riprendeva direttamente da quello sumero-babilonese. Tutto viene spiegato dal fatto che si trattasse dello stesso popolo poi diviso dopo il diluvio.

Genesi e fortuna dell'opera

I volumi delle Antiquitatum variarum erano il frutto di un «percorso intellettuale breve ma intensissimo»[13], iniziato circa dieci anni prima, quindi in età già matura, dopo che Annio da Viterbo, nel 1489, fece ritorno alla sua città natale dopo un ventennale soggiorno a Genova[14]. A quell'epoca, benché in età matura, il frate poteva vantare una cultura essenzialmente teologica[14]. Fu solo dal 1489 che iniziò a occuparsi di classici greci e latini, riuscendo, in pochi anni, a raggiungere una conoscenza così vasta e profonda da riuscire a redigere la sua opera poi accusata di falsificazione a molti anni dalla sua scomparsa.[14]. Questo percorso di studi rappresentò, in effetti, una vera e propria impresa, tanto più stupefacente con un'enorme mole di studio, che fu interamente screditata[15].

La composizione dell'opera potrebbe essersi ipoteticamente compiuta nei circa 6 anni che vanno dal 1492 fino al 1498, data di pubblicazione[11].

Critiche

 
Jacques Lefèvre d'Étaples fu, insieme a Pietro Crinito, tra i primi censori del falso

La genuinità dell'opera sollevò immediatamente dubbi in vari studiosi: tra i primi a denunciarne la falsità, pochi anni dopo la prima pubblicazione, furono Pietro Crinito (Pietro Baldi del Riccio) in De honesta disciplina (XXIV, 12)[16] e Marcantonio Sabellico nelle sue Enneades (VIII, 5), opere entrambe del 1504. Due anni dopo, a segnalarla come falso fu Jacques Lefèvre d'Étaples, nel suo commentario alla Politica di Aristotele, pubblicato a Parigi nel 1506[16].

I sospetti non smisero di addensarsi: Juan Luis Vives, ad esempio, se ne occupò criticamente in un passo del suo commento al De Civitate Dei di Sant'Agostino[17] e nel suo De tradendis disciplinis[18]. L'autenticità dello pseudo-Beroso di Annio fu poi confutata dall'umanista erasmiano Juan de Vergara nel 1552.[19] Un duro colpo alla reputazione di Annio venne anche dal suo confratello Melchor Cano che, nel suo classico De Locis Theologicis (1563), lo sottopose ad una critica spietata culminante in un'accusa di eresia.[20][21]

Nel 1565-66, l'umanista Girolamo Mei ebbe una dura polemica storiografica con il letterato Vincenzo Borghini, che, in occasione del matrimonio di Francesco I de' Medici e Giovanna d'Austria, dichiarò che Firenze era stata fondata da Augusto, basandosi sulle iscrizioni riportate da Annio da Viterbo. Mei, ostile a casa Medici, sfidò questa opinione e contestò l'autenticità dei materiali di Annio in un breve trattato latino (De origine urbis Florentiae).

Tuttavia, né le precocissime segnalazioni, né le confutazioni successive riuscirono a impedire che l'opera acquistasse credito e si guadagnasse almeno diciotto pubblicazioni e ristampe, oltre ad almeno tre traduzioni a stampa in italiano[22], tra cui la traduzione di Francesco Sansovino del 1583[23].

L'impostura di Annio fu definitivamente decretata solo nella seconda metà del Cinquecento, anni dopo la sua morte, da Giuseppe Giusto Scaligero[24], uomo di vastissima e solida erudizione che, nell'analisi delle fonti, poteva unire, alla perfetta padronanza del greco antico e del latino, anche la conoscenza dell'arabo e dell'ebraico (a differenza di Annio, le cui conoscenze di greco ed ebraico erano a suo dire rudimentali al suo confronto[9]). Questo nonostante le fonti non fossero disponibili, almeno finché gli scavi del '900 non portarono fuori gli originali sumeri.

Ingredienti del successo dell'opera

 
Il "decreto di Desiderio"

Uno dei segreti del successo della compilazione, è il fatto che alle fonti si accompagnava un commento «mostruosamente complicato»[15], in cui un intreccio inestricabile di citazioni e testimonianze provenienti da una enorme platea di fonti si univa a uno sforzo di spiegazioni etimologiche che mettevano insieme greco, latino e perfino ebraico[25]. Per questo in vita non fu mai possibile confutarlo, ma solo condannarlo alla damnatio memoriae per i suoi scritti "eretici". Su quest'ultima lingua, oltre che degli scritti di San Girolamo, Annio si avvaleva dell'aiuto di un certo Samuele, talmudista di Viterbo[25]. Annio, inoltre, ebbe l'accortezza di ancorare le sue invenzioni storiche alla cronologia di autori veri, quali Plinio il Vecchio, Tito Livio e Diodoro Siculo[9]. Davvero troppo notevole per una falsificazione, anche secondo i suoi detrattori, eppure ciò non impedì che la calunnia si protraesse fino ai giorni nostri[26].

Un altro ingrediente del successo di Annio fu anche il fatto che l'opera si prestava a essere riutilizzata, in maniera strumentale, da schiere di "patriottici" di tutt'Europa, i quali, attingendovi a piene mani, e decontestualizzandone le citazioni, potevano, di volta in volta, esaltare la tradizione di altri popoli, Galli, Celti, Britanni, Teutoni, ecc.[27] il che era inviso al potere dell'epoca.

È stato anche suggerito il ruolo che potrebbe aver avuto l'aspetto tipografico della prima edizione romana, nonostante la tipografia offrisse più o meno sempre le medesime scelte stilistiche, nell'avvolgere l'opera in un alone di credibilità. Infatti, la stampa, in caratteri gotici e adorna di un'unica e rudimentale xilografia, si presentava con tratti estetici più crudi e antichizzanti rispetto all'eleganza dei caratteri di Aldo Manuzio, e con una forte rassomiglianza esteriore alla Bibbia di Gutenberg[28]. Si tratterebbe, secondo la Rowland, di un effetto estetico consapevolmente perseguito: con la ricerca, per la sua opera, di un'apparenza pseudo-biblica, Annio intendeva conferirgli maggiore credibilità quale complemento alla cronologia della Bibbia[28]. In effetti si tratta però solo di ipotesi e illazioni.

I "falsi" ritrovamenti archeologici

 
Tavola di Pipinus Etruscorum Larthes, falso del 1490-1500 ca.

Altro elemento che contribuì alla sua damnatio memoriae fu l'accusa di fabbricazione di veri e propri falsi reperti archeologici ed epigrafici (statue e iscrizioni etrusche[9]) che servivano a dare ulteriori e tangibili conferme alle fonti che a 50 anni dalla sua morte venne accusato di avere inventato[29] e a testimoniare la presenza a Viterbo di antiche figure della mitologia romana, della mitologia egizia, e della tradizione biblica[9]. Per sostenere l'imponente impalcatura storica pare avesse organizzato a Viterbo, nei pressi della residenza estiva di Papa Alessandro VI, qualcosa che doveva apparire come una sorta di vera e propria campagna di scavi archeologici, in cui, in realtà venne poi accusato in modo postumo di aver rinvenuto gli artefatti da lui stesso fabbricati e interrati in precedenza[9]. Per sua sfortuna non ha potuto assistere all'imponente opera di discredito che lo ha investito, ma nemmeno ai ritrovamenti dei primi del '900 delle civiltà della Battriani e della Margiana, e delle tavolette sumere che confermavano ciò che lui aveva riportato, con tanto del ritrovamento di materiali come il bitume che lui, alla sua epoca, non sapendo di cosa si trattasse, ha ipotizzato nel suo libro essere probabilmente una specie di argilla. Lo stesso dicasi per i ritrovamenti archeologici dei cinque diluvi di cui lui fu l'unico a parlare, nelle sue cronache di Beroso. Tutte cose che non poteva di certo essersi inventato né sapere a 500 anni di distanza. Questo non è bastato per riabilitare il suo nome, che ormai era sepolto nell'oblio. Tre esempi di macchinazioni a lui attribuite sono visibili al Museo Civico di Viterbo[30].

Il Marmo osiriano
 
Il c.d. Marmo osiriano al Museo di Viterbo

Uno dei più intriganti manufatti artistici che sia stato accusato di aver confezionato è il cosiddetto Marmo osiriano, al Museo Civico di Viterbo. Non si tratta di un falso in sé, ma dell'assemblaggio in giustapposizione di due pezzi autentici di arte medioevale, anacronistici tra di loro e rispetto alla loro dichiarata antichità artistica. L'opera si presenta come una lunetta inquadrata in una cornice rettangolare. Sulla lunetta è presente un rilievo con viti intrecciate su un tronco di quercia, una lucertola (o un coccodrillo) e degli uccelli. Sulla cornice, in bassorilievo, due visi dai tratti classicheggianti si affrontano di profilo. Al di sotto della lunetta è presente un'iscrizione esplicativa latina, apposta nel 1587 dal Senato e dal popolo di Viterbo.

Annio accompagna il suo falso con una complessa interpretazione simbolica. Secondo la sua descrizione, si sarebbe trattato di un frammento da una colonna trionfale lasciata a Viterbo da Osiride, che forniva la prova della venuta del dio egiziano in Italia e nella città. Il profilo di Osiride, secondo Annio, sarebbe riconoscibile in una delle due figure affrontate sulla cornice (quella a sinistra). Il profilo femminile a destra sarebbe appartenuto a una musa, Sais Xantho, cugina di Osiride. Le raffigurazioni zoomorfe e fitomorfe sulla lunetta erano da interpretare come lettere sacre egizie che contribuivano alla complessa simbologia nel modo seguente: lo scettro di Osiride era rappresentato dalla quercia i cui rami aperti alludevano al suo dominio su ogni angolo del mondo; la scena celebrava e storicizzava l'incontro del dio e degli antichi Egizi con gli Italiani (gli uccelli) e la vittoria sui Giganti (lucertola o coccodrillo, a significare il male)[31]. Annio, inoltre, affermava che tra i rami dell'albero fosse possibile intravedere un occhio. Occhi del genere sono stati ritrovati in Sardegna, nella civiltà nuragica, e la somiglianza incredibile dell'arte e dei sarcofagi etruschi con quelli egizi è cosa nota ed accertata dall'archeologia. Questo non è servito a riabilitare l'opera.

La lunetta è stata creduta a lungo un manufatto romano tardoantico, finché Pietro Toesca, nel 1927, non ne ha fornito una datazione al XII secolo. Un pezzo d'arte medievale, ma di circa un secolo più recente, è rappresentato dai due profili umani della cornice: Brian Curran[32] li ha messi in relazione stilistica con le due teste in rilievo che sono visibili, in posizione piuttosto defilata, sull'Ambone del Vangelo del Duomo di Ravello, datato a circa il 1270 e riconosciuto come il capolavoro di uno scultore, Nicolò di Bartolomeo da Foggia, che mostra una notevole consonanza con lo stile di Nicola Pisano.[33] Il reperto fu in grado di ingannare perfino l'occhio esperto di Giorgio Vasari che, scrivendone una cinquantina di anni dopo, ne trasse spunto per formulare un giudizio sull'alta qualità dell'arte etrusca.[34] Nonostante questo nessuno ha mai dato allo stesso Annio il beneficio del dubbio che pensasse lui stesso si trattasse di un pezzo autentico.

Incontro con Rodrigo Borgia e l'influsso sulle decorazioni dell'Appartamento Borgia

 
Appartamento Borgia, seconda volta della Sala dei Santi: Osiride viene ucciso, Iside ne ricompone il corpo e organizza i funerali; manifestazione del bue Api e processione col suo idolo

A segnare una svolta nella vita di Annio fu la conoscenza fatta di Rodrigo Borgia (Papa Alessandro VI), al quale, secondo un'ipotesi formulata da Paola Mattiangeli, sarebbe stato presentato da Alessandro Farnese (futuro Paolo III), probabilmente intorno al 1492[35], forse proprio in relazione al progettato Appartamento Borgia[4][35].

Il toro araldico che campeggia nel blasone dei Borgia fornì ad Annio lo spunto per un collegamento con la figura mitologica del toro Api[36], venerato nell'antico Egitto. Si dice che con alcuni finti reperti egizi, interrati in Italia e poi dissotterrati, Annio si inventò una discendenza diretta dei Borgia nientemeno che da Iside e Osiride[37]. Nel 1499, appena un anno dopo la stampa, Annio fu nominato Magister sacri palatii apostolici, Maestro del sacro palazzo apostolico del papa[38][35].

Programma decorativo dell'Appartamento Borgia

In una lezione al Courtauld Institute of Art di Londra, nel novembre 1945, Fritz Saxl, del Warburg Institute, avanzò per primo l'ipotesi secondo cui il soggetto dell'Appartamento Borgia in Vaticano fosse stato suggerito al Pinturicchio proprio da Annio da Viterbo[39].

Secondo le argomentazioni di Ingrid Rowlands, sarebbe stato lo stesso Papa Borgia ad affidare ad Annio la responsabilità di ispirare il programma decorativo del celebre ciclo pittorico dell'Appartamento Borgia[40]. Di sicuro le geneaogie di Annio influenzarono l'egittomania che traspare nel ciclo decorativo dell'Appartamento Borgia, con la presenza di Iside e altri motivi e divinità egittizzanti[41]. Una spiegazione diretta dal "pensiero anniano" è invocata anche per il simbolismo che caratterizza la Sala della Sibilla e la Sala delle Arti Liberali dell'Appartamento Borgia, nelle quali "predomina l'astrologia e dove figure di profeti pagani, ebrei e cristiani si uniscono insolitamente a soggetti egiziani ed astrologici"[42], a comporre "un tale sincretismo di motivi, non nuovo al gusto umanistico, [che] trova [...] nei vari momenti del pensiero anniano (teologico, astrologico, egizianistico) la spiegazione più diretta"[42].

Intenti dell'opera

 
La "seconda tavola cibellaria"

Anche per chi lo ha tacciato di falsificazione non è chiaro quale fosse il disegno complessivo di Annio da Viterbo nel compiere un'opera di portata tanto mastodontica. Se infatti per quanto grandiosa sarebbe però stata semplice nel caso della sua compilazione e dell'apposizione della sterminata bibliografia e sistema di note a sostegno, questo apparirebbe davvero impossibile da fare nel caso di un'invenzione. Eppure il contenuto era tanto ardito da non poter essere accettato, neanche a distanza di secoli e con le prove archeologiche alla mano. Varie sono le ipotesi formulate, senza che si sia registrata la convergenza degli studiosi sulle motivazioni e gli scopi della sua falsificazione. Rimane anche da capire come abbia potuto inventare terre e materiali scoperti solo con le esplorazioni archeologiche di cinque secoli dopo.

Anti-ellenismo religioso e patriottico

Per spiegare il movente dell'opera, Eugène Napoleon Tigerstedt, ad esempio, partiva dalla riconoscibile inclinazione di Annio al miso-ellenismo, un atteggiamento culturale che lo spingeva a voler distruggere l'auctoritas degli autori dell'antichità greca, riprendendo una tradizione letteraria che parte da Catone il Censore, prosegue con Giovenale (e la ripresa, come refrain, di una sua citazione sulla «Graecia mendax»[43], dietro la quale, tuttavia, vi è chi vede un riferimento a Flavio Giuseppe più che a Giovenale[4]), e continua nel Medioevo con il trattamento riservato da Dante a Ulisse nell'Inferno dantesco (canti XXVI e XXVII), e con la credenza di chi vedeva la mano punitrice di Dio nelle vicende del Grande Scisma e della caduta dell'Impero romano d'Oriente[44].

Dietro tale atteggiamento, Tigerstedt riconosceva due ragioni psicologiche: da un lato, agendo in chiave patriottica, Annio intendeva "esaltare la gloria che s'identifica con l'Italia[45]; dall'altro, Annio voleva incrinare l'autorità dei Greci per avvalorare l'autorità della Bibbia e difendere la Fede dall'emergere un nuovo atteggiamento culturale collegato alla conoscenza dei classici greci[45]. Ma questo non spiega la copiosa parte riservata agli annali dei greci, e l'attribuzione degli etimo di alcuni luoghi italici come la costiera dell'Eridano agli stessi greci, primo fra tutti Fetonte.

Intenti encomiastici

In generale, viene escluso un interesse economico dell'autore[46]. Tra i motivi, si potrebbe ipotizzare però un intento encomiastico nei confronti di personaggi potenti, a quali Annio indirizzava le sue opere.

Ma l'ipotesi non è coerente con i comportamenti complessivi dell'autore: Annio aveva già mostrato, in precedenza, di sapersi ingraziare la benevolenza dei potenti senza la necessità di mettere in atto la sua colossale opera di falsificazione[46].

Patriottismo e localismo

 
Veduta del Palazzo dei Papi, a Viterbo: per alcuni, fu proprio l'esaltazione della città a muovere Annio alla fabbricazione del falso

Un altro possibile movente potrebbe essere, svuotata da contenuti religiosi, la mera volontà campanilistica di illustrare e nobilitare la storia della città di Viterbo, sua patria, elevandone il rango a quella di antica capitale e centro di irradiazione di un'immaginaria primordiale età dell'oro dell'Etruria (un fine che, come già detto, Tigersted indica tra le componenti psicologiche del suo atteggiamento[45]). Il dispiegamento di un simile disegno rasentava peraltro la follia, vista l'imponente massa di studi accaniti che il domenicano dovette mettere in atto al solo scopo di portarlo a termine[46]. D'altro canto, secondo Fumagalli, si può ragionevolmente dubitare della follia di Annio: in favore della sua sanità di mente, testimonia il grande credito di cui godette presso personaggi di altissimo rilievo: nel 1499, un anno dopo la stampa, il domenicano fu nominato Maestro del sacro palazzo apostolico da Papa Alessandro VI[38]. Per quanto criticabile possa essere la figura del papa Borgia, non è pensabile che si risolvesse a destinare a un ufficio così delicato, una specie di invasato o malato di mente[38].

Ipotetica buona fede

In definitiva, rimane difficile attribuire un senso unitario all'opera di Annio, individuandone una motivazione unica e credibile: non è da escludere che il suo autore fosse genuinamente convinto della veridicità di quanto andava affermando, e che tutta l'invenzione dei falsi documenti, insieme al gigantesco apparato messo in opera, pur portata a termine con consapevolezza, non servisse altro che a convincere gli interlocutori di quella che per lui era da considerarsi la verità storica[38].

Fortuna posteriore

Caratteristica della fortuna di Annio è il fatto che, nonostante il precoce discredito caduto su di essa, la sua opera, anche in epoca molto successiva, continuasse a essere utilizzata come materiale autorevole e degno di fede.

Una vittima illustre dei "falsi" di Annio fu l'umanista olandese Erasmo da Rotterdam. Nei suoi commentari al Nuovo Testamento (Novum instrumentum, Basel: Johann Froben, 1516, II 326-7), affrontando il problema della genealogia di Gesù riportata nel Vangelo di Luca (Luca 3,23-38[47]), si basò sul Breviarium de temporibus dello Pseudo-Filone riportato nelle Antiquitatum variarum e sulle note al testo di Annio.[48] Furono "ingannati" anche umanisti del calibro di Agnolo Poliziano[49] e, con qualche esitazione, Guillaume Postel.[50]

Nella sua Supputatio annorum mundi (1543) Martin Lutero si servì dei Commentaria di Annio per ricostruire un'accurata cronologia del mondo postdiluviano.[51][52] Per i luterani l'opera di Annio ebbe una tale importanza che l'ultima edizione delle Antiquitatum variarum fu stampata a Wittenberg nel 1612.[53][54] Le storie di Filippo Melantone e Johannes Sleidanus sulle origini dell'umanità erano basate sulle fonti fornite da Annio.[55] Anche lo storico tedesco Johann Georg Turmair, detto Giovanni Aventino accetta tranquillamente, come autentiche, le fonti di Annio da Viterbo.[56]

Ancora a inizio Seicento lo pseudo-Beroso fu incorporato in una trattazione inglese dal titolo An Historical Treatise of the Travels of Noah into Europe ("Trattato storico sui viaggi di Noè in Europa"), di Richard Lynche[57][58]

Allo pseudo-Beroso di Annio sono collegate anche elaborazioni storiche sul personaggio di Tuisco, oscura figura di progenitore divino delle tribù germaniche (il cui nome è conosciuto dal repertorio che Tacito dà nel suo De origine et situ Germanorum): infatti, per la sua figura attinge da Annio Sebastian Münster, nella sua Cosmographia Universalis del 1544, che conosce e utilizza, oltre alla pseudo-cronaca di Beroso, anche il commentario di Annio. Echi di Annio, per la stessa figura di Tuisco, si ritrovano in Michael Drayton (1563 – 1631), che sembra servirsi di una versione di Annio filtrata da Verstegen (o Verstegan, alias Richard Rowlands) in A Restitution of Decayed Intelligence in Antiquities concerning the most noble and renowned English Nation (1605)[59].

Nel XVII secolo l'opera di Annio fu tra le fonti preferite di Ottavio D'Arcangelo, noto falsario catanese, attivo nella sua città, che fu a capo di una vera e propria organizzazione di falsari impegnati nella produzione di documenti artefatti sulla storia di Catania[12].

Ma in quello stesso secolo XVII si registrano ancora utilizzazioni in buona fede, come genuina fonte storica,[60]. Nel secolo successivo si segnala perfino un caso isolato di rivendicazione della sua autenticità[60]. Tra gli autori seicenteschi che se ne servono vi è Athanasius Kircher[5] che, tuttavia,"[6]: lo cita come "auctoritas" ma, al contempo, lo definisce "apocrifo"[6].

Inoltre, una dissertazione accademica elogiativa delle sue qualità si registra addirittura in pieno Novecento: a metà degli anni sessanta è ancora considerato proponibile un tentativo di recupero della sua figura come quella di storico genuino[8].

Infine, si registra perfino nel XXI secolo il caso di una pubblicazione accademica peer reviewed (vertente sull'interpretazione evemerista della ricorrenza del mito dei giganti in molte culture[61]) in cui si fa uso di Annio da Viterbo, servendosi di una narrazione di Beroso recepita attraverso Scipione Mazzella (nel testo Sito et antichità della città di Pozzuolo e del suo amenissimo distretto, Orazio Salviani, Napoli, 1591, opera già da subito oggetto di feroce critica mossa da Tommaso Costo nel 1595[62]), il quale, a sua volta, non si rifà alla genuina tradizione frammentaria di questo autore ma riprende i resoconti incorporati nelle Antiquitatum variarum di Annio[5]. Nello stesso articolo, i due autori incorrono di nuovo, in via indiretta, in un "passo falso" simile, quando discutono dell'opera di Tommaso Fazello sui giganti del 1573, tra le cui fonti ci è ancora lo pseudo-Beroso inventato da Annio[5].

Edizioni

Note

  1. ^ theologiae professor: Annio non ottenne mai il titolo di Theologiae Doctor, mentre aveva conseguito quello magistrale (theologiae magister) a Roma, nel convento di santa Maria sopra Minerva: cfr. Fubini.
  2. ^ Il titolo proviene da una successiva edizione parigina (Parigi: Josse Bade et Jean Petit, 1512, rist. 1515). Nella sua forma estesa, esso è: Antiquitatum variarum volumina XVII a venerando et sacrae theologiae et praedicatorii ordinis professore Ioanni Annio ("Diciassette volumi di antichità varie a opera del venerando Giovanni Nanni, professore di sacra teologia dell'ordine dei predicatori")
  3. ^ "Commentari del frate Giovanni Nanni da Viterbo sulle opere di diversi autori che discorrono di antichità"
  4. ^ a b c d e f Fubini.
  5. ^ a b c d (EN) Jason Colavito, Academic Journal Publishes Historical Review of Gigantology, Gets Taken in by Renaissance Era Forgery, su jasoncolavito.com, 20 luglio 2017. URL consultato il 22 luglio 2017.
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  34. ^ «Vedesi ancora per le statue trovate a Viterbo nel principio del pontificato d'Alessandro VI, la scultura essere stata in pregio e non picciola perfezzione in Toscana». Giorgio Vasari, I Parte, Proemio delle Vite, in Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, 1550.
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  36. ^ James Stevens Curl, The Egyptian Revival. Ancient Egypt as the Inspiration for Design Motifs in the West, 2005 (p. 86)
  37. ^ James, anche se è più probabile che a motivazione di questo avesse addotti gli annali di Beroso e Martone che descrivevano le discendenze dei reali sempre a partire dai loro predecessori, che erano considerati dei. Il che è stato confermato dal ritrovamento di altre versioni degli scritti dei sacerdoti, come quella del Lovari. Stevens Curl, The Egyptian Revival. Ancient Egypt as the Inspiration for Design Motifs in the West, 2005 (p. 88)
  38. ^ a b c d Edoardo Fumagalli, «Un falso tardo-quattrocentesco, lo pseudo-Catone di Annio da Viterbo», 1984, p. 363
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  57. ^ Titolo completo: An historical treatise of the travels of Noah into Europe, containing the first inhabitation and peopling thereof. As also a briefe recapitulation of the kings, governors, and rulers commanding in the same, even untill the first building of Troy by Dardanus. Done into English by Richard Lynche, gent., Londra, Editore: Adam Islip, 1601
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