Sabato De Sarno è di tutti: è della bassottina neo arrivata, Pina, che tiene in braccio nella foto precedente; è degli studenti e futuri stilisti che l'hanno visto recentemente svelarsi su una poltrona con il microfono in mano; è nel primo ritratto/biografia dove ha raccontato i suoi dettagli professionali e personali a poche ore dal debutto del suo primo show nel settembre 2023; è dei clienti che scendono le scale di un negozio e provano un concetto color amaranto; è di sua madre che lo accompagna alle sfilate della Haute Couture; è del marito che lo vede atterrare dall'Italia in Belgio; è del suo team che lo guarda scegliere, pensare e gesticolare; è di un giovane artista milanese che ha preso il suo "Ancora" e l'ha milanesizzato in un quadro "Ancamò" regalato allo stilista; è del suo ufficio che ha un giardino interno dove il sole porta geometrie non richieste su divani bianchi e tavoli di vetro; è delle All Stars nere e delle Doc Martens bordeaux che indossa. Del direttore creativo di Gucci abbiamo letto molto, conosciamo alcune cose pubbliche e osserviamo alcune scelte private, ha un sorriso che ti lascia avvicinare ma tiene la distanza di chi ti vuole scoprire per primo. Mentre anche la seconda bassotta, Luce, lo raggiunge e sale sulle sue gambe, la più piccolina mordicchia la scritta Gucci ricamata sulla T-shirt. A centrare il fuoco dell'obiettivo fotografico è lei, Sabato De Sarno è troppo intento a tenerle entrambe composte per il ritratto di famiglia che gli abbiamo chiesto. E forse è questo il Sabato De Sarno che non è di tutti, quello che sfugge allo sguardo richiesto per dovere di cronaca personale. Un quarantenne con l'accento non più partenopeo, ma mashappato da altre tentazioni regionali, un ragazzo che ha toccato così tanti spilli in vita sua da riuscire a far spegnere le luci e far partire una sfilata disegnata dall'inizio alla fine da lui, solo. Concetto che diamo per scontato, ma che così ovvio non è. Un uomo che abbraccia le persone alle spalle, quasi fosse un agguato d'amore ma anche una confessione di timidezza. Le sue collezioni a oggi (e a pochi giorni dal secondo show dedicato alla collezione donna) sono tutt'altro che timide e non arrivano a sorpresa come un abbraccio alle spalle: sono strutturate, formate per raccontare come costruisce un abito De Sarno e come legge i primi quesiti che il mondo Gucci, un colosso nel colosso Kering, si è posto in un dopo pandemia che ha sezionato il Pianeta. Se c'è qualcosa che è limpido e solido in questo momento è che il tratto di De Sarno ha una concretezza difficile da inserire nello scioglilingua del quiet luxury, oggi trend di TikTok, domani problema di invenduto di un'eterna stagione moda mai abbastanza sazia.

Hai due piscine in cui immergerti e in queste acquisti un superpotere: una è la piscina della normalità e una della vulnerabilità. Quale scegli?
Quella della normalità. E "normale" non è una parola che mi piace del tutto, può avere molteplici significati, dipende davvero in che modo la usi. Con il normale ho sempre un po' lottato. Però a oggi, da persona più consapevole e matura, è un termine che mi piace perché sono più sicuro di me stesso e quindi della mia normalità. È uno stato che associo alla sicurezza e al reale. Facciamo parte di un mondo dove tutto e tutti ci vogliono in caselle precise e avere un atteggiamento sicuro ci aiuta anche a essere più normali. Quindi "normale" lo voglio usare come significato per descrivere me stesso. Sai cosa? Credo che più che normale mi piaccia la parola reale. Il reale è più legato al desiderio. Perché i desideri, anche quando non puoi toccarli, sono reali.

In che realtà siamo oggi?
Devo fare una premessa: il mondo in cui viviamo a me piace e non piace. Mi piacciono le scelte che prendiamo nei confronti del giusto rispetto per ciò che vogliamo fare, non mi piace l'idea di costruire un altrove. Non mi piace dover andare a vivere in un posto dove posso essere me stesso: non è che dobbiamo stare in un altro posto "libero" per essere noi stessi. Mi piace l'idea che il luogo sia unico e comune per tutte le persone. Per me il reale è questo: appartenere e fare parte del mondo vero.

Sogno e realtà: qual è stata la tua bacchetta magica?
Non ho mai fatto grandi sogni, non ho mai pensato di diventare IL direttore creativo. Quando ho iniziato, volevo solo lavorare in un'azienda di moda. Poi ci sono stato e da lì ho desiderato fare lo stilista. Ho cominciato come modellista, avrei amato fare il responsabile di un ufficio stile, ho sempre avuto aspettative molto, molto, reali. Però ogni volta che raggiungevo qualcosa, sognavo sempre un po' di più. Non una cosa sola, ho avuto tanti piccoli sogni. Questo modo di vivere mi ha aiutato a non fissarmi su un obiettivo unico che rimanesse lì e che non venisse mai realizzato.

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Giovanni Benvenuto

Trasmetti una forte empatia e accessibilità e lavori per un'azienda storica del lusso: sei il ponte che unisce questi due mondi?
C'è Sabato e c'è Sabato direttore creativo. La mia fatica più grande è cercare di far vedere anche chi è solo Sabato: da settembre scorso a oggi mi piacerebbe essere visto per la persona che sono. So che ho la mia storia, Gucci fa parte della mia storia, ma non è la mia intera storia. La mia vita è più interessante del mio lavoro. Sono stato scelto per la creatività e per le idee e per come le ho spiegate alla proprietà. Le strade che ho preso finora, e gli obiettivi che ho raggiunto a livello professionale, non corrispondono solo ai traguardi che ho conquistato grazie alla professione che amo. La cosa più difficile è proprio questa: cercare di far capire alle persone che sì, sono un direttore creativo, ma c'è anche Sabato la cui mamma non entrerebbe in un negozio di lusso perché si sentirebbe in imbarazzo.

Famiglia: quanto è fonte di energia privata e quanto è stimolo anche per il lavoro?
Quello che faccio vedere della mia famiglia è esattamente come la vivo quotidianamente: mia mamma l'ho sempre invitata a ogni evento importante, c'era anche alla sfilata di fine anno scolastico quando studiavo moda. Non parlo di famiglia perché voglio far vedere un lato di me, è parte integrante di me. Quando sono sotto stress oppure in una situazione di lavoro molto intensa, come è stato per il mio primo show in Gucci, la cosa più importante quel giorno era poter atterrare con lo sguardo su mio marito, su mia mamma e su mio padre. Loro sono venuti per me, non sono venuti né per il direttore creativo, né per Gucci, né per essere in prima fila. Mio marito è venuto per suo marito, mio fratello è venuto per suo fratello e questo per me è importante. Ovvio che per lavoro vado a cena con celebrities, ho un accesso a una vita da privilegiato, ne sono molto consapevole. Però come Sabato e basta mi piace andare ad Amandola con mio marito (nelle Marche ndr), fare le cene con mia mamma a Como (dove la famiglia si è trasferita da Cicciano, in provincia di Napoli, ndr). Sono stato fortunato perché anche quando lavoravo come braccio destro di Pierpaolo da Valentino (per 14 anni, dove è stato anche direttore moda per il prêt-à-porter maschile e femminile di Piccioli, ndr) avevo accesso a dei mondi straordinari ma poi tornavo dai miei amici che per me sono persone indispensabili. Perché l'amicizia è una cosa seria e io sono lento nel crearla ma dura per sempre.

Qual è la qualità più grande che ha un abbraccio?
La sicurezza che ti dà.

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Giovanni Benvenuto

Oggi ti riconosci nell'ipotetico disegno di te che avevi fatto da ragazzino?
Non immaginavo di poter fare tutto questo. Quando ero ragazzino volevo essere accettato. Per me già quello era un sogno, no? Essere me stesso. All'epoca la cosa che desideravo di più era cercare di vivere anche la mia sessualità in un modo libero, e per me, che arrivavo dalla provincia, era un problema, parliamo di 25-27 anni fa. Essere gay, riconoscersi omosessuale 27 anni fa era un po' diverso rispetto a oggi, se ricevevi più abbracci, se ti confidavi...

Chi osservi di più quando sei in aeroporto?
Le famiglie, mi piacciono le coppie, qualcuno che sta con qualcun altro. Le persone sole non mi piacciono, perché spesso ci sono già io che viaggio da solo. Quando vado da mio marito (Daniele, marchigiano che vive e lavora a Bruxelles, ndr), o quando raggiungevo la mia famiglia, o abitavo a Roma. In aeroporto scruto le persone perché poi mi costruisco delle storie dietro. Mi piace osservarle: hanno sempre delle dinamiche da studiare, a volte divertenti altre volte nervose.

Hai postato su IG una storica foto di Samuel Beckett mentre indossava la borsa Jackie di Gucci. Per Beckett la solitudine era lo stato essenziale di tutta un'intera vita. Hai paura della solitudine?
Dipende dai momenti. A volte ho proprio il desiderio di stare da solo. E di solito è quando sto bene, invece quando ho dei momenti di pensieri, stress e pressioni mi piace stare con le persone che so che mi amano. Con loro possiamo stare insieme anche se non parliamo, ma l'idea che mi siano vicini o semplicemente nella stessa stanza mi tranquillizza.

Se fossi stato lo stilista che sei oggi, però negli anni 50, dove non c'erano i social, non c'erano una serie di altre forme di accettazione pubblica, il tuo stile o il tuo approccio al lavoro sarebbero stati diversi?
Non lo so. Credo che quello che sono oggi sia anche il risultato di ciò che ho vissuto fino a oggi. Quindi sicuramente le esperienze, le persone che ho incontrato, i lavori che ho fatto, i momenti tristi che ho attraversato, anche quelli felici, comunque mi hanno portato a chi sono ora. Quindi non ho idea di che tipo di stilista sarei stato in quell'epoca, forse con le Grandi Guerre così vicine... No, non so rispondere perché quello che ho fatto dice molto di chi sono oggi.

Nell'ultima collezione maschile, attraverso look in dialogo con la precedente femminile, hai mostrato il mirroring. Se ti guardi allo specchio cosa vedi?
Se mi guardo adesso vedo un Sabato che non si piace. Mi piaccio come persona ma non fisicamente. E nella mia moda questo aspetto chi mi conosce un po' lo nota. Desidero che le persone scelgano capi che disegno per Gucci certo, ma vorrei vedere chi c'è dietro a ciò che viene indossato. Cioè non è che ti fornisco un total look e tu ti ci travesti: mi piace l'approccio che hanno le persone quando scelgono i capi e dietro scorgi la loro irriverenza, oppure la loro timidezza o la loro sensualità. Se sono delle persone sensuali, mi piace che i vestiti non coprano completamente e facciano pensare anche a qualcos'altro. In un certo senso ti aiutano a farti vedere per come sei o per come tu vuoi essere visto. E quando ci si guarda allo specchio c'è un po' questo gioco. C'è una linea sottile tra te e ciò le persone vogliono vedere, quasi come se sapessero molto più loro di te che tu di te stesso.

Quanto ti ha toccato questo ultimo aspetto, l'inserimento di altri nella tua privacy?
È una cosa nuova per me. Lo scorso settembre le persone di colpo sapevano più loro della mia vita di me: è stato forte, non me l'aspettavo. C'è stato anche bullismo, gente che ha visto che ero gay, sposato, nelle foto con mio marito mettevano like e in privato mi hanno scritto cose orrende. I social sono strumenti sempre più forti, 27 anni fa erano i compagni di classe, il vicino di casa, ora l'attacco arriva da più parti, in modalità sempre differenti. Non lo puoi circoscrivere. E con il ruolo e la visibilità che ho il confronto può essere violento. Tutto questo mi ha toccato tanto i primi giorni, mi dicevo: "Guarda questo, neanche sa chi sono e mi vomita addosso tutto questo odio". E io ho la fortuna di essere una persona risolta, con una famiglia forte, ma chi è solo? Chi non è supportato e amato come me?

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Giovanni Benvenuto

Cosa provi a essere mentore di qualcuno?
È una grande responsabilità e lo so bene perché sono stato fortunato ad aver incontrato delle persone che mi hanno aiutato e permesso di esprimermi. Anch'io vorrei dare la stessa possibilità ai professionisti che mi circondano, e un po' lo sto facendo. In Gucci sono arrivato senza portare nessuno del mio vecchio team o della mia vecchia squadra. Inizialmente è stato difficile, sarebbe stato molto più facile arrivare con dieci persone con cui hai lavorato per 14 anni. Però io non sono così. Credo nell'etica del lavoro e questa è un'azienda in cui sapevo che avrei trovato dei professionisti con cui definire un modo per parlare e creare - in due, tre mesi - una collezione, la mia prima qui. Mi sono sentito molto solo all'inizio perché percepivo la pressione, la grandezza, però devo dire che poi, dopo le prime settimane, tutto ha iniziato a girare.

Sei della politica del travolgere con l'entusiasmo?
Sì, la condivido in pieno. Perché da solo non puoi fare niente: credo molto nell'energia del team, dell'ambiente, dello stare bene al lavoro, anche perché passiamo un sacco di ore insieme. Senza forzare il clima, ma io sono così: mi affaccio in una call Zoom altrui, mi presento a riunioni in cui non sono previsto, anche perché mi annoierei a stare seduto alla scrivania a dire sì, no, mi piace, non mi piace. Sono più uno che fa, voglio toccare i vestiti, cambiare idea, se bisogna cambiare idea. Avere visione d'insieme. Sono vent'anni che lavoro, non ho la presunzione di saper fare tutto però mi piace la modalità che se ci confrontiamo troviamo delle soluzioni perché la mia esperienza più la tua esperienza fanno la differenza. Non sono una persona da piedistalli, non amo affatto il distacco imposto.

La moda sta prendendo distacco, sta salendo su un piedistallo sempre più alto, e non solo dal punto vista economico?
Questo periodo richiede più attenzione a quello che si compra, a quello che si indossa e a quello che si desidera. Ciò che deve essere centrale sono le persone: devono acquistare un prodotto perché lo desiderano, non perché devono averlo per essere giuste, oppure per essere accettate oppure per fare parte di qualcosa. Al di là dei costi dei capi. Quando avevo 18 anni mi sono comprato cose molto care, come una giacca di Tom Ford di velluto rosso, per averla ho venduto anche una collanina che mi avevano regalato i miei genitori. Ho messo da parte i soldi perché c'era questo forte desiderio di avere quella giacca che in quel momento per me rappresentava essere sexy. Non mi entra più, ma ce l'ho ancora.

Non è solo compro di meno e spendo meglio ma è anche desiderare meglio?
È un po' come nei sentimenti: quanto sei disposto a dare per un desiderio grande, che cresce? Secondo me è così per i vestiti anche se sono apparentemente solo degli oggetti. Chiaro, io faccio il designer quindi è ovvio che desidero, ho desiderato e desidererò dei vestiti. E so bene che è difficile rispondere perché poi ci sono delle cose che costano comunque così tanto e quindi non puoi permettertelo. Ma più in generale il concetto di desiderio puro e sincero, legato a qualcosa che ti smuove emozioni ti fa avvicinare a un'altra forma di possesso.

Hai questo rapporto con l'arte contemporanea?
Faccio ancora molte foto a opere d'arte che mi piacciono e che vorrei avere. Oggi che mi posso permettere più investimenti nell'arte ho acquistato lavori che ho amato tanto e che amo ancora profondamente. Ma non ho smesso di fotografare opere che un domani vorrei avere.

Nella canzone Lettera da lontano, Enzo Jannacci elenca una serie di dediche, in una strofa canta "lettera per il tempo che a vent'anni nessuno ti dice che vola via con un tipo particolare di vento". A chi scrivi una lettera tu?
Questa la scriverei anche io al Sabato che aveva vent'anni.

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Giovanni Benvenuto