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Cure in eccesso: un rischio per la salute

19 settembre 2021
Esami inutili

Troppo spesso analisi e cure sono applicate in eccesso. Uno spreco di tempo e denaro. Per non parlare dei danni che alcuni esami, se inappropriati, possono provocare alla salute. Abbiamo aderito al progetto “Fare di più non significa fare meglio” promosso da Slow Medicine. Ecco le pratiche mediche a maggior rischio di eccesso. Prima di sottoporti agli esami, confrontati con il tuo medico.

Troppo spesso analisi e cure sono applicate in eccesso, anche quando non ci sono dati scientifici solidi che ne dimostrino l’utilità.

  • Per abitudine.
  • Perché con il tempo sono entrati nell’uso.
  • Per la pressione dell’industria farmaceutica e medica.
  • Perché il medico e il paziente vogliono “sentirsi più tranquilli”.
  • Perché “tutti fanno così”.

Un’analisi o un trattamento non necessari possono esporre il paziente a rischi inutili, in misura molto maggiore di quanto non siamo abituati a pensare. Senza contare l’inutile aggravio della spesa per il Servizio sanitario, che alla fine viene pagato da tutti, sia in termini di tasse maggiori, sia in termini di tagli a misure di assistenza a volte necessarie.

Sobrietà significa qualità

Ma non si tratta soltanto di sprechi: bisogna avere molto chiaro che una cura o un esame non motivato, anche il meno invasivo, per il cittadino è un inutile rischio per la salute.

  • Un esame può essere dannoso. Non tutti gli esami sono privi di rischi: le radiografie, per esempio, comportano l’esposizione a radiazioni ionizzanti, qualcosa cui non è ragionevole sottoporre l’organismo se non c’è un motivo davvero valido.
  • Tutti gli esami possono dare esiti sbagliati. Sia perché non identificano un disturbo (falsi negativi), sia perché lo identificano quando non c’è (falsi positivi). Questo può creare una catena di conseguenze dannose: nel caso dei falsi positivi, ad esempio, una serie di nuovi esami inutili, con tutte le ansie, i rischi e le spese conseguenti.
  • Può succedere di trovare disturbi che sarebbe stato meglio non curare. Un aspetto su cui si riflette troppo poco è quello della sovradiagnosi: un esame può infatti portare a trovare (e trattare) una malattia che non avrebbe mai dato fastidio. L’esempio più classico è quello dello screening del PSA, che identifica e spinge a curare tumori della prostata che non avrebbero mai fatto danni, trasformando in malati uomini che senza lo screening sarebbero stati considerati sani.

“Fare di più non significa fare meglio”

“Fare di più non significa fare meglio” è un progetto promosso dall’associazione Slow Medicine, con la partecipazione di Altroconsumo. Lo scopo: portare i medici e i pazienti a scegliere con maggiore attenzione, discutendone insieme, le cure e gli esami da prescrivere.

Abbiamo chiesto a medici e altri professionisti della salute di indicarci le pratiche a più alto rischio di eccesso: cioè quelle che più spesso vengono prescritte ed effettuate anche quando non è necessario, anche quando non ci sono dati scientifici che ne supportino l’utilità. Non si tratta certo di abolirle: ma di spingere i medici e i pazienti a prenderne atto, discutendo insieme con calma i pro e i contro prima di decidere.

Ecco l'elenco, in schede scaricabili, di tutte le pratiche mediche a maggior rischio di eccesso.

Cure palliative: non ritardiamole e non riserviamole solo ai pazienti oncologici

Spesso nei reparti di Medicina Interna (ma non solo), dove si trova la maggior parte dei pazienti con malattie terminali e dove avviene la maggior parte delle morti in ospedale, si tendono a mantenere a oltranza procedure terapeutiche e diagnostiche che in realtà non sono utili al benessere del paziente.

  • È ampiamente documentato che in ospedale il trattamento assistenziale delle persone con malattia terminale spesso rappresenta nient’altro che il prolungamento di quello delle malattie nella fase acuta: per esempio, trattamenti chemioterapici per i malati di tumore.
  • Questo tipo di cure, però, non contribuisce al benessere del paziente con malattia terminale né agisce in modo positivo sulla durata della sua vita.
  • Nelle fasi terminali della malattia, e in generale alla fine della vita, è piuttosto il benessere psicologico e il controllo dei sintomi ciò che è più importante.
  • Ignorare questo aspetto ha un forte impatto negativo sui malati, sui familiari e sugli operatori sanitari, che spesso non si sentono in grado di offrire un reale aiuto..

Che cosa sono le cure palliative?

  • Le cure palliative sono quel tipo di cure, farmacologiche ma non solo, che si rivolgono a tutte le persone che hanno una malattia inguaribile giunta allo stadio terminale.
  • Obiettivo principale delle cure palliative è dare senso e dignità alla vita della persona con malattia terminale inguaribile, fino alla fine, alleviando prima di tutto il suo dolore e gli altri sintomi fastidiosi, e aiutando lui e i suoi cari con supporti non solo di ambito strettamente medico.

Quando iniziare e con quali pazienti?

Non c’è un'indicazione di tempo univoca su quando iniziare le cure palliative: alcune fonti indicano una durata di sei mesi, ma altre indicano fino a 12-24 mesi. Secondo l’OMS, le cure palliative e di fine vita dovrebbero essere iniziate precocemente: in realtà, però, spesso vengono rimandate e limitate ai malati di malattie oncologiche.

Tra le malattie croniche e irreversibili non oncologiche in cui è stato dimostrato che le cure palliative sono utili e rispettose del benessere dei pazienti, vi sono: insufficienza cardiaca, cirrosi epatica, insufficienza respiratoria e broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, demenza in fase avanzata.

Scarica la scheda e portala al tuo medico per discuterne con lui.

Un cambiamento anche di prospettiva etica

  • Dal punto di vista etico, negli ultimi anni si è verificato un importante cambiamento di sensibilità nella società: se prima in casi di malattia terminale si puntava, medici e famiglie, sul fare tutto il possibile per aumentare la durata della vita, adesso è sempre più frequente la richiesta di far vivere la parte finale della vita a una persona cara nel modo più dignitoso e meno doloroso possibile.
  • Ogni cura non riguarda solo la terapia della malattia in quanto tale, ma la presa in carico della persona e dei suoi bisogni nella sua interezza. Questo vale anche e soprattutto nel caso di persone con una malattia nelle fasi terminali: cure intensive, senza considerare i sintomi della terminalità, non farebbero altro che peggiorare la situazione di salute, nel senso più ampio del termine, della persona.
  • La cura della malattia è utile finché procura un giovamento, secondo una gerarchia di valori scelta dalla persona stessa; se è gravosa e non è in grado di generare alcun giovamento al malato, insieme con quest’ultimo e in accordo con i suoi desideri e necessità, ci si deve indirizzare verso l’attivazione o il potenziamento delle cure palliative.
Integratori vitaminici e minerali

Assumere integratori vitaminici e minerali allo scopo di prevenire tumori e malattie cardiovascolari è inutile e in alcuni casi potenzialmente pericoloso.
Gli studi infatti non confermano effetti protettivi per la maggior parte di questi integratori nei confronti di tumori e malattie cardiocircolatorie.

Perché assumere integratori di vitamine e minerali per prevenire tumori e malattie cardiovascolari è inutile?

  • Gli studi scientifici hanno dimostrato che solo i supplementi di calcio hanno un probabile effetto preventivo sui tumori del tratto colon-rettale. A parte questo caso, le numerose pubblicazioni disponibili hanno ampiamente documentato in maniera concorde che alcune vitamine e minerali in determinate quantità possono ridurre il rischio di sviluppare alcuni tumori solo se assunti attraverso gli alimenti e le bevande che ne sono naturalmente ricchi. 
  • Gli stessi risultati sono attestati dagli studi sulla prevenzione cardiovascolare: non emerge alcuna prova dell'effetto protettivo degli integratori vitaminici e minerali, considerando che bisogna tenere conto anche dei possibili rischi. 

Perché assumere integratori di vitamine e minerali può essere rischioso?

  • È stato dimostrato che la supplementazione di Beta carotene (vit. A) aumenta in modo significativo il rischio di tumori polmonari in fumatori ed ex fumatori.

Qual è il modo migliore di prevenire malattie tumorali e cardiovascolari?

È ormai dimostrato l'effetto protettivo contro diverse forme di tumore e contro le malattie cardiocircolatorie di:

  • una dieta equilibrata, ricca di frutta, verdura e in generale di alimenti di origine vegetale;
  • una regolare attività fisica (anche solo mezz’ora al giorno di camminata a passo veloce).

Quando è opportuno assumere integratori di vitamine e minerali?

Il ricorso a integratori alimentari è consigliabile soltanto in caso di:

  • necessità legate a condizioni particolari, per esempio la gravidanza; 
  • carenze comprovate a carico di alcuni micronutrienti.

In questi casi sarà necessario procedere con formulazioni specifiche e sempre dietro controllo e indicazione del medico.

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I consigli di Altroconsumo

  • Per chi vuole seguire una dieta equilibrata che riduca il rischio di tumori e malattie cardiovascolari gli integratori non sono una buona soluzione: al contrario possono trasformarsi in un alibi per non correggere la propria alimentazione, che è la scelta davvero utile.
  • In linea di massima una dieta con funzione preventiva si può ottenere così:
  1. consuma almeno cinque porzioni al giorno tra frutta (senza dimenticare la frutta secca) e verdura (basta iniziare con un frutto a colazione, non dimenticare il contorno a pranzo e cena e scegliere sempre un frutto per chiudere i pasti e/o per gli spuntini tra i pasti);
  2. aumenta il consumo di fibra, scegliendo il più possibile i cereali integrali;
  3. evita o almeno riduci al minimo il consumo di carne lavorata e conservata (salumi) e preferisci comunque il pesce alla carne;
  4. dai spesso spazio nella dieta ai legumi (ceci, fagioli, piselli), in sostituzione delle proteine di fonte animale;
  5. limita i dolci, i fritti e in generale tutti i cibi ricchi di grassi, zuccheri, sale e calorie
Pillola anticoncezionale

Alle segnalazioni di un rischio aumentato per le pillole di terza generazione (che contengono desogestrel o gestodene o drospirenone come progestinico), molti ginecologi hanno reagito prescrivendo alle donne che richiedono la pillola una serie di analisi preliminari, nell'illusoria convinzione di poter selezionare le candidate alla contraccezione ormonale sicura. Bisogna ricordare però che il rischio è davvero minimo e va considerato come un potenziale ostacolo alla contraccezione ormonale solo per donne che presentino determinati fattori di rischio. Proprio per questo la pratica di prescrivere di routine esami del sangue generici, test generici di coagulazione e test specifici per la trombofilia, inclusi i test genetici, prima della prescrizione o durante l'assunzione di contraccettivi estro-progestinici non è raccomandata ed è anzi da considerare a rischio di inappropriatezza.

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I nostri consigli

  • Scegliere un contraccettivo è una questione personale, basata su preferenze individuali e di coppia, che richiede una buona informazione indipendente e saltuariamente un buon counseling in ambiente adatto e con professionisti preparati. Il consultorio familiare è la struttura più adatta.
  • Verifica con il medico che la tua scelta contraccettiva sia compatibile con la tua salute. Ci sono criteri medici, aggiornati dall’OMS, che permettono di valutare i pro e contro delle diverse scelte contraccettive.
  • Anche la scelta della pillola non è indifferente. Ci sono diversi prodotti, che il medico può prescrivere in base a diversi criteri (efficacia, sicurezza, effetti collaterali, prezzo).
  • Una buona anamnesi, che comprenda età, peso, pressione, eventuale diabete e fumo, casi familiari di tromboembolia, è il mezzo migliore per valutare l’eventuale rischio di trombosi e di orientare la scelta.
  • L'assunzione della pillola estro-progestinica è sconsigliata nelle prime tre settimane dopo il parto e durante l'allattamento, periodo in cui è possibile usare una pillola che contiene solo il progestinico.
Ecografia della tiroide

Proporre l’ecografia tiroidea come screening, ovvero come controllo sulla popolazione, in chi non presenti alcun sintomo non è consigliabile: è concreto il rischio di trovare noduli benigni - o che comunque non avrebbero dato alcun fastidio - e di ipotizzare che siano maligni e pericolosi. A volte si procede addirittura con interventi chirurgici inutili.

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Troppo facile trovare noduli che non daranno mai problemi

Nel corso degli ultimi decenni, i miglioramenti tecnologici hanno reso l’ecografia un esame la cui rilevanza e centralità non può più essere messa in dubbio. Tuttavia, l'affidabilità dello strumento deve fare i conti con altre due realtà: l’estrema frequenza di noduli benigni della tiroide e la bassa aggressività dei tumori maligni che presentano un rischio di mortalità inferiore al 5%. 

Oggi si stima che fino al 70% delle donne in post-menopausa abbia un nodulo tiroideo ecograficamente documentabile. Tuttavia, nella larghissima maggioranza, si tratta di situazioni in cui il nodulo non darà mai problemi, né metterà in pericolo la salute della donna. Ma qual è il rischio di diagnosticare come pericoloso qualcosa che in realtà non lo è? La risposta si chiama "overtreatment", cioé il ricorso a terapie farmacologiche o chirurgiche sostanzialmente inutili, con però il loro naturale carico di complicazioni e costi, oltre che di allarmi, preoccupazioni, giornate di lavoro perdute.

I nostri consigli

  • Se hai notato la comparsa di un ingrossamento sul collo, o se hai spesso tosse, raucedine e difficoltà a deglutire, rivolgiti subito al tuo medico
  • Tieni presente che anche il luogo in cui vivi e le abitudini alimentari influenzano il funzionamento della tiroide; parlane con il tuo medico.
  • Quando vai dal medico, porta con te la lista dei farmaci che stai assumendo: alcuni farmaci assunti per problemi cardiaci (amiodarone e propranolo), per problemi psichiatrici (litio, fenitoina), per terapie antivirale (interferone), gli estrogeni, alcuni antibiotici (rifampicina) possono avere un effetto diretto sulla funzionalità della tiroide o interferire con i dosaggi degli ormoni tiroidei.
  • Riferisci al medico eventuali problemi cardiaci o problemi di pressione: alcune di queste condizioni possono essere legate a malfunzionamento della tiroide.
  • Quando l’ecografia tiroidea mostra un nodulo benigno, lo specialista suggerisce di “vigilare”: fatti spiegare in modo chiaro che cosa si intende e ogni quanto tempo va ricontrollata la situazione
Radiografie ai bambini in caso di polmonite

Le polmoniti non sono tutte uguali. Quella che i nostri bambini prendono all'asilo o in famiglia, di gravità lieve o moderata, non comporta complicazioni: per questo tipo di polmonite, sottoporre il bambino a radiografia del torace è una pratica inutile. Perchè il bambino guarisca, bastano le visite dal pediatra e le cure a casa, senza alcuna necessità di ricovero in ospedale. Infatti la polmonite che colpisce i bambini sani, e non predisposti di per sé a malattie respiratorie, è data da un’infezione acuta dei polmoni e passa senza complicazioni.

Al pediatra di famiglia o al pronto soccorso spetta però il non facile compito di fare rapidamente una diagnosi corretta del tipo di infezione polmonare in corso e iniziare così al più presto la terapia. A questo scopo la radiografia non è d'aiuto, perché non aggiunge informazioni sulla diagnosi, che dipende invece da fattori come l'età del bambino, la gravità dei sintomi e la natura del contagio. A volte il pediatra prescrive la radiografia del torace per avere la conferma che si tratti di polmonite, o perché spera di capire così se l'infezione sia di origine batterica o virale: tutte informazioni che però l'Rx non dà.

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Mai come prima scelta

  • I raggi X fanno male, soprattutto ai bambini. Bisogna pensarci bene, prima di esporli ingiustificatamente al rischio degli effetti avversi delle radiazioni, perché si accumulano di volta in volta quando ci sottoponiamo a una radiografia. E i danni possono essere gravi.
  • Le linee guida internazionali più recenti indicano che, nei casi in cui al pediatra sia chiaro che il bambino ha la polmonite, eseguire la radiografia del torace non aggiunge nessuna informazione utile.
  • Per capire qual è la terapia migliore, bisogna capire se la polmonite è batterica o virale, ma, allo stato attuale, l’Rx torace non permette di distinguere con certezza l’origine delle polmoniti. Inoltre nel bambino sono frequenti le polmoniti miste, virali e batteriche insieme.
  • Ci sono dei segni tipici che ci dicono che si tratta di polmonite. Possono essere: febbre oltre i 37,5 gradi; sintomi respiratori acuti (aumento della frequenza del respiro, difficoltà a respirare, tosse, dolore al petto e rantoli); quadro clinico generale (spossatezza) e presenza di segni radiologici o clinici di infiltrato polmonare.

I consigli di Altroconsumo

  • Capire bene, dialogando a fondo con il pediatra, se le indagini di laboratorio e strumentali sono assolutamente indispensabili per decidere la terapia.
  • Tenere conto dell'età del bambino è molto importante, perché aiuta a capire quale può essere l'origine della polmonite e quindi orientare la terapia. L'infezione virale, infatti, è più frequente nei primi due anni di vita, dopo è più probabile che la causa sia un batterio, più probabilmente lo streptococco pneumonie, seguito dal mycoplasma e dalla clamidia.
Colon e prevenzione: la cadenza giusta

Oltre a seguire regole di vita corrette per la prevenzione (vedi i consigli in basso), per un’eventuale diagnosi precoce è utile sottoporsi periodicamente allo screening del sangue occulto nelle feci, che in caso di risultato positivo porta alla necessità di effettuare una colonscopia di controllo. Il sangue può infatti segnalare la presenza di una lesione tumorale, prima che questa dia sintomi, o di una lesione benigna, che però potrebbe trasformarsi in maligna col passare del tempo. Come avviene per tutti gli screening, è importante che sia l'esame del sangue occulto sia le eventuali colonscopie di controllo successive siano eseguiti con la cadenza giusta e coinvolgano le persone giuste.

L'esame del sangue occulto

La ricerca del sangue nelle feci è consigliata e proposta a tutta la popolazione senza fattori di rischio specifici - con programmi dedicati in quasi tutte le regioni - tra i 50 e i 69 anni ogni due anni. Dato che si tratta di un test di screening, deve essere riservato alle persone prive di sintomi, che rientrino nella fascia di rischio stabilita. In presenza di alcuni sintomi o esami alterati (anemia e/o carenza di ferro, sanguinamenti rettali, diarrea o stitichezza insorta di recente) può infatti essere indicato eseguire direttamente l'esame endoscopico e non del sangue occulto.

La colonscopia

Se l'esame del sangue occulto dà un risultato positivo (ovvero se del sangue c'è), bisogna eseguire una colonscopia, che potrà essere in seguito ripetuta a seconda del risultato. La colonscopia successiva, detta di sorveglianza, andrà effettuata nei tempi indicati dal medico gastroenterologo che ha eseguito la prima. Sarà quindi il medico che stila il referto della prima colonscopia a indicare l'intervallo di tempo più appropriato per la successiva, se prevista. In sintesi, secondo le indicazioni delle linee guida europee, il medico indicherà un intervallo diverso a seconda che sia o meno stato trovato un adenoma (comunemente detto polipo benigno), delle sue dimensioni, della quantità di adenomi trovati, del loro tipo determinato dall'esame istologico. Non è opportuno richiedere controlli più frequenti.

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I consigli di Altroconsumo

  • Molti studi dimostrano che una dieta ad alto contenuto di calorie, ricca di carni rosse e povera di fibre, è associata a un aumento dei tumori intestinali. Viceversa, diete caratterizzate da un alto consumo di frutta e vegetali sembrano avere un ruolo protettivo.
  • Consigli per la dieta sono: ridurre l'assunzione di carni rosse, in particolare conservate, consumare quotidianamente almeno tre porzioni di verdura e due di frutta, limitare il più possibile il consumo di cibi conservati (salumi inclusi) o affumicati, limitare l'alcol a non più di un bicchiere di vino a pasto.
  • Se si è sovrappeso è bene dimagrire.
  • L'attività fisica ha un importante effetto preventivo: è consigliabile farne almeno 30 minuti al giorno.

Infine, per favorire una diagnosi precoce del tumore, è importante seguire gli screening 

Diabete

Misurarsi ogni giorno la glicemia quando si ha diabete di tipo 2 non è consigliabile

Ai diabetici che tengono sotto controllo la glicemia grazie alla dieta alimentare o assumendo farmaci che hanno un basso rischio di ipoglicemia, non dovrebbe essere prescritta di routine l’automisurazione della glicemia ogni giorno. Infatti, non ci sono prove di una grande utilità dell’autocontrollo quotidiano nel diabete di tipo 2, ma anzi, secondo alcuni autori un controllo eccessivo è fonte di molta ansia e quindi danneggia inutilmente il paziente. L’autocontrollo quotidiano della glicemia è invece importante nella gestione del diabete mellito di tipo 1. Scarica la scheda e portala dal tuo medico per discuterne con lui. 

Il rischio di ipoglicemia oggi è più basso

Per i pazienti con diabete di tipo 2 in terapia con farmaci per bocca, prima dell’introduzione di farmaci a basso rischio di ipoglicemia, erano più frequenti i casi di pazienti diabetici che subivano conseguenze anche gravi a causa del crollo della glicemia. Oggi però sono disponibili farmaci con rischio ipoglicemico quasi nullo, soprattutto per le ipoglicemie più gravi, quelle che possono procurare i danni più gravi al paziente. I diabetologi privilegiano, quando possibile, l’uso di questi farmaci. Di conseguenza, una volta raggiunto il livello di glicemia voluto, l’uso costante del glucometro darà dei risultati piuttosto prevedibili. Ecco perché la misurazione quotidiana della glicemia spesso non aggiunge informazioni utili.

I nostri consigli

  • L’alimentazione corretta e l’attività fisica costante sono i primi e indispensabili approcci sia nel prevenire sia nel curare il diabete di tipo 2.
  • La dieta corretta e l’attività fisica regolare, soprattutto all’esordio della malattia, possono riportare la glicemia entro i valori normali, senza l’uso di farmaci.
  • Ci sono controlli medici fondamentali da fare per tenere a bada il diabete di tipo 2:
  1. almeno una volta all’anno va fatto il controllo dell’HbA1c (l’emoglobina glicata) e va eseguito un elettrocardiogramma;
  2.  annualmente va anche valutato il livello di creatinina nel sangue e la eventuale presenza di microalbuminuria (tracce di albumina nelle urine); inoltre ci si deve sottoporre a un esame accurato del piede per prevenire il “piede diabetico”;
  3. ogni due anni è importante fare una visita oculistica per il rischio di malattia della retina.
Latte artificiale

ll neonato che nasce sano, del giusto peso e a termine deve essere allattato esclusivamente al seno: non c’è bisogno di alcuna integrazione di latte artificiale. All'inizio si nutrirà di colostro, la prima secrezione della mammella. Intorno al terzo o quarto giorno dal parto la mamma inizia a produrre il latte maturo. Al neonato questo è sufficiente, non serve altro.

  • Il meccanismo che regola la produzione del latte è quello della domanda e dell'offerta: più il bimbo si attacca al capezzolo e succhia, più la produzione di latte aumenta. Questo consente ad ogni mamma di produrre il latte necessario al suo bambino, se non ci sono interferenze: medici, ostetriche e infermiere dovrebbero sostenere in tutti i modi questa funzione naturale.
  • I motivi che conducono così frequentemente a dare supplementi di formule artificiali ai neonati sani sono molti, ma quelli connessi alla impossibilità della mamma di produrre latte , o alla salute della mamma e del bambino sono una minoranza assoluta.
  • La letteratura scientifica è ricca di studi che dimostrano i grandi benefìci legati all'allattamento al seno, sia per la salute del bambino sia della mamma. È dimostrato anche che se la mamma riesce ad allattare al seno il suo bimbo già dai primi giorni di vita è molto probabile che riuscirà a proseguire per molti mesi.

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Perché è meglio non aggiungere latte artificiale

Aggiungere il latte artificiale all'alimentazione del neonato è sbagliato perché interrompe il meccanismo naturale di domanda e offerta che c'è tra madre e bambino e che regola la produzione del latte materno. Il bambino che ha succhiato dal biberon, infatti, non avrà bisogno di attaccarsi al capezzolo della madre perché è sazio, di conseguenza la madre produrrà meno latte. Si crea quindi una situazione per cui, la madre, vedendo che effettivamente produce poco latte, rischia di perdere fiducia nella propria capacità di nutrire a sufficienza il suo bambino e di essere una buona mamma. Può succedere che questo circolo vizioso porti a interrompere precocemente l’allattamento al seno. E addio benefìci.

Test genetici

L’offerta di test genetici, venduti su internet, in farmacie, palestre e saloni di bellezza, e la loro disponibilità a prezzi relativamente contenuti, ha stimolato la domanda: sempre più persone scelgono di farne uno. Non è consigliabile ed è da considerare una pratica inappropriata. I risultati di questi test possono avere conseguenze importanti sui pazienti e sui loro familiari, condizionandone le scelte, portando a volte a un eccesso di diagnosi e di trattamento, se non eseguiti correttamente. La normativa italiana, in linea con quella europea, prevede che un test genetico debba essere richiesto da medici specialisti dopo adeguata consulenza. I laboratori che li eseguono devono rispondere a precisi requisiti di accreditamento, adempiere a precisi standard e impiegare personale specialista in genetica medica.

La possibile scarsa precisione e l’incapacità di leggere e comprendere bene i risultati sono già due motivi sufficienti per non farsi sedurre dalle sirene dei test genetici diretti al consumatore. Vi è però un altro fattore di fondo che attiene al ruolo che il codice genetico ha nell’insorgenza delle malattie. È importante capire che il rischio genetico è solo una tessera di un puzzle molto più grande. A parte qualche rara eccezione, le patologie che sono oggetto di studio dei test di suscettibilità sono condizioni multifattoriali in cui un particolare corredo di geni interagisce con molti fattori ambientali. Dal fumo all'alcol, dall’alimentazione all’attività fisica: lo stile di vita incide moltissimo sulle probabilità di contrarre una malattia, mentre l’effetto dei fattori genetici è spesso modesto.

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Utili solo per disturbi specifici e su prescrizione medica

  • I test genetici vengono usati nella pratica medica quando possono fornire risposte attendibili e clinicamente utili a un quesito preciso. Questo vale soprattutto per le patologie che sono determinate esclusivamente o prevalentemente da fattori genetici.
  • Anemia mediterranea, fibrosi cistica, distrofia muscolare, sindrome di Down e predisposizione ereditaria a tumori della mammella o di altro tipo: in questi casi il test serve per evidenziare la presenza di una variante genetica che causa con alta probabilità (in molti casi con certezza) la comparsa della malattia.
  • Poiché le patologie in questione sono piuttosto rare nella popolazione generale, questi esami vengono di solito richiesti in presenza di specifici fattori di rischio, tra cui spesso ha particolare importanza la storia familiare.
  • È inoltre importante valutare se l'esito dell'esame ha ricadute sulla condotta clinica. Per esempio un test che evidenzi alterazioni dei geni BRCA1 o BRCA2, responsabili di predisposizioni a tumori al seno o all'ovaio, implica l'opportunità di ricorrere a misure di prevenzione o diagnosi precoce (controlli radiologici frequenti, interventi chirurgici).
Test sulle intolleranze alimentari: oggi si esagera

Una persona su quattro oggi attribuisce i propri sintomi di malessere a intolleranze o allergie alimentari. 

I dati dicono che questo può essere vero in una percentuale di casi molto minore, intorno al 3-5%.

Farmacie, parafarmacie ed erboristerie offrono "test sulle intolleranze alimentari", spesso costosi, basati su metodologie non supportate da solidi dati scientifici.

Capita così che ci si convinca di avere una qualche intolleranza alimentare, pur senza accusare nessun sintomo di quelli normalmente legati a questi disturbi. È il caso per esempio delle persone con obesità, che, non riuscendo a perdere peso, eseguono uno di questi test per identificare un alimento che starebbe ostacolando il dimagrimento. Mentre l'obesità non è correlata ad allergie né ad intolleranze alimentari, ma solo alle proprie abitudini (alimentari e di vita) e al proprio metabolismo. Il risultato, oltre allo spreco di soldi, è che le persone eliminano senza motivo determinati alimenti dalla dieta, impoverendola, con il rischio di squilibri.

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Non è una pratica razionale e può creare problemi

I cosiddetti “test per intolleranze alimentari” quali i test kinesiologici, il test citotossico, il test di neutralizzazione, il vega test e altri test elettrodermici, la biorisonanza, il pulse test e l’analisi del capello sono sempre inappropriati in quanto non basati su prove scientifiche sufficientemente solide, non ripetibili né riproducibili, né in grado di diagnosticare alcuna malattia legata all'alimentazione.

Altri test come l'IgG4 si basano invece su un errore concettuale: la presenza di anticorpi IgG4 non è un segnale di intolleranza o allergia alimentare, ma solo una risposta immunitaria fisiologica, cioè del tutto normale, di fronte a elementi comunque estranei al nostro corpo.

I consigli di Altroconsumo

  • Evita di sottoporti a generici test per le intolleranze alimentari, in quanto inutili, costosi e potenzialmente dannosi per la salute: possono infatti indurre a seguire una dieta non equilibrata, senza risolvere il problema, ma anzi creandone di nuovi.
  • Tieni presente che uno dei segreti dell'alimentazione equilibrata è la varietà: non è mai consigliabile eliminare tutti i cibi di una famiglia (per esempio, tutti i latticini).
  • Se hai disturbi gastrointestinali, rivolgiti in prima battuta al tuo medico di base.
  • Da non scordare che molti disturbi dell'apparato digerente possono essere legati allo stress, che inibisce la produzione di succhi digestivi e la motilità di stomaco e intestino, ostacolando così digestione e assorbimento degli alimenti. Inoltre, il cortisolo prodotto dallo stress impedisce la produzione del muco gastrico, rendendo lo stomaco più vulnerabile.
  • Pratiche di rilassamento come yoga, meditazione, sedute di psicoterapia, semplicemente dedicarsi ad attività piacevoli, possono aiutare a ristabilire l'equilibrio interiore, contrastare lo stress e far funzionare di nuovo al meglio l'apparato digerente.
Insonnia: troppe benzodiazepine agli anziani

Le benzodiazepine, usate per indurre il sonno e calmare l'ansia, sono tra i farmaci in assoluto più utilizzati in Italia. Prescriverli come prima scelta agli anziani che hanno problemi di insonnia è una abitudine diffusa, quanto spesso inappropriata. Non bisognerebbe farlo, senza avere prima valutato altri metodi per migliorare la qualità e la durata del sonno. In ogni caso, bisognerebbe raccomandarne l’uso con interruzioni, per periodi non superiori alle quattro settimane, e non continuare la terapia senza rivalutare periodicamente l’indicazione e l’eventuale comparsa di effetti indesiderati. Lo stesso vale per altri farmaci usati contro l'insonnia, come zolpidem, zaleplon e zopiclone (detti "farmaci Z").

Scarica la scheda e portala dal tuo medico per discuterne con lui.

Meglio non esagerare

  • Le benzodiazepine tendono a perdere efficacia col tempo: chi li assume può assuefarsi, cosa che spinge ad aumentare il dosaggio e a diventare così maggiormente dipendenti. Per contro, quando si smette all’improvviso di prenderle, si incorre nella cosiddetta “sindrome da sospensione”, cioè un effetto rimbalzo che può portare a un’insonnia di ritorno.
  • Presentano numerosi effetti collaterali, possibili anche alle dosi consigliate: sonnolenza durante il giorno, che compromette l’attenzione e la concentrazione; ansia, irritabilità e allucinazioni. Possono causare reazioni allergiche e sonnambulismo.
  • Numerosi studi dimostrano un aumentato rischio di cadute e di frattura del femore nei pazienti anziani che assumono benzodiazepine e farmaci Z.
  • Possono presentarsi fenomeni di accumulo, con possibili difficoltà di movimento e cognitive (confusione, perdita di memoria, riduzione dell'attenzione), favoriti anche dal diverso comportamento del farmaco nell'organismo dell'anziano, per le normali alterazioni nel funzionamento degli organi legate all'età.
  • Gli Z farmaci, benché lanciati come alternativa più sicura alle benzodiazepine, presentano sostanzialmente gli stessi effetti indesiderati (ma costano di più).

I consigli di Altroconsumo

  • L'insonnia va combattuta modificando lo stile di vita: per esempio, evita di addormentarti davanti alla televisione subito dopo cena, per poi risvegliarti a notte fonda e non riuscire più a riprendere il sonno.
  • Se soffri di insonnia, è consigliabile evitare il riposo pomeridiano.
  • Svolgere una certa attività fisica durante il giorno porta a una qualità del sonno migliore: meglio invece evitare l'attività fisica intensa subito prima di andare a letto.
  • Una cena leggera, che contenga alimenti a base di triptofano (latte, pesce, legumi, noci) può aiutare a favorire il sonno.
  • Instaurare semplici riti serali (una tisana calda, qualche pagina di lettura) può aiutare.
  • Mantenere una vita sociale attiva può aiutare a combattere l'insonnia.
Bruciori di stomaco: farmaci solo nei casi più gravi

Gli inibitori di pompa protonica (IPP) sono farmaci molto diffusi, utili a ridurre la produzione di acido nello stomaco. Non devono essere prescritti per disturbi banali e comunque non dovrebbero essere mai prescritti con leggerezza, perché possono presentare importanti effetti indesiderati: il loro uso continuo è probabilmente correlato a un aumento del rischio di infezioni intestinali e polmonari già nel breve termine, e di frattura ossea dopo un anno di uso.

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Solo nei casi gravi

Gli IPP sono efficaci in quanto bloccano alla fonte la produzione di acido nello stomaco, agendo su un sistema (la pompa protonica, appunto) che si trova nelle cellule dello stomaco. Presentano però effetti indesiderati che li rendono inappropriati per bruciori di stomaco banali, non legati a ulcera o esofagite da reflusso. Sono prescritti abitualmente in associazione a terapie di cui si teme un potenziale effetto lesivo per lo stomaco, sia quando questo è accertato, come nelle terapie a base di antinfiammatori non steroidei (Fans), ma troppo spesso anche quando non lo è. Nella malattia da reflusso gastroesofageo gli IPP sono da considerare farmaci utili in quanto eliminano i sintomi, ma da assumere solo quando realmente necessari e alla dose più bassa possibile. 

I consigli di Altroconsumo

  • Il bruciore di stomaco e altri disturbi di digestione banali (come gonfiore, senso di pienezza, nausea...) spesso si possono risolvere anche soltanto modificando lo stile di vita, specialmente a tavola.
  • Un’attenzione utile è mangiare sano, lentamente, masticando bene e prestando attenzione al cibo, perdere peso se necessario, smettere di fumare ed evitare cibi e bevande che scatenano i sintomi. Se i sintomi non migliorano, è bene consultare il medico.
  • Quando il sintomo prevalente è l'acidità, spesso è sufficiente ricorrere a un antiacido a base di bicarbonato di sodio, sali di magnesio o a una combinazione di sali di magnesio e alluminio. Se i sintomi non migliorano, è il caso di consultare il medico.
Mal di schiena: la risonanza solo quando serve

La risonanza magnetica per il mal di schiena viene prescritta abitualmente al primo mal di schiena o sciatalgia (dolore irradiato lungo la gamba), spesso in assenza di un trattamento fisico e medico per attenuare il dolore. Se non sono presenti gravi sintomi di tipo neurologico o sistemico, la risonanza magnetica lombosacrale in caso di lombalgia e sciatalgia sia acuta sia cronica non è indicata di routine, ma deve essere presa in considerazione solo in caso di sintomi resistenti a terapia fisica e medica per almeno 6 settimane.

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Mai come prima scelta

La risonanza magnetica, la radiografia e la tomografia sono definite tecniche di “diagnostica per immagini” perché producono immagini dell’interno del nostro corpo. Possono essere indispensabili per alcune malattie, ma non sono indicate come prima scelta in caso di mal di schiena e sciatalgia senza segni di allarme particolari. Ecco perché.

  • Gli studi mostrano che la maggior parte delle persone con mal di schiena o sciatalgia migliorano nel giro di un mese, sia che abbiano fatto una risonanza magnetica, una radiografia o una tomografia, sia che non l’abbiano fatta.
  • Chi è sottoposto a queste indagini non migliora più rapidamente.
  • Questi esami possono portare a interventi chirurgici o altri trattamenti invasivi di cui non c’è necessità.
  • La radiografia sottopone l’organismo a radiazioni ionizzanti, che è meglio evitare se non è necessario.

In una piccola percentuale di casi, il dolore potrebbe essere provocato da cause specifiche gravi il medico farà attenzione ad alcuni campanelli d’allarme, che dovrebbero indurre ad approfondimenti.

I consigli di Altroconsumo

  • Resta attivo: svolgi attività fisica quotidianamente. Parla con il tuo medico per individuare lo sport più adatto a te.
  • Se necessario, per calmare il dolore discuti con il tuo medico la scelta di un antidolorifico, che però da solo non può risolvere il problema.
  • Se il dolore non è eccessivo, cerca di fare dell’esercizio per mantenere il corpo in movimento; l’immobilità assoluta, anche durante la crisi, è in linea di massima sconsigliabile.
  • Presta attenzione al peso e a eventuali chili di troppo: aumentare il carico della schiena peggiora la situazione.
  • Non sollevare oggetti troppo pesanti, e abbassati nel modo appropriato, piegandoti sulle ginocchia e non caricando il peso sulla schiena.
  • Scegli l'approccio più utile alle tue esigenze, combinando programmi di esercizio fisico e cognitivo: quello che dovrebbe essere modificato, per combattere validamente il mal di schiena, è proprio il modo complessivo di rapportarsi al proprio corpo.
Antinfiammatori: meglio usarli con prudenza

Insieme al paracetamolo, i farmaci analgesici, cioè contro il dolore, più acquistati in Italia sono i Fans, Farmaci antinfiammatori non steroidei. Parliamo di medicinali noti, come Aspirina, Aulin, Moment, Voltaren e molti farmaci equivalenti (detti anche generici). Benché molto diffusi, questi farmaci presentano rischi di seri effetti indesiderati. Non devono essere prescritti né assunti con leggerezza: gli studi disponibili suggeriscono infatti la necessità di una maggiore prudenza da parte dei medici, sia nella scelta iniziale che nella prosecuzione della terapia.

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Molti gli effetti collaterali

Gli antidolorifici antinfiammatori funzionano bloccando la produzione delle prostaglandine, sostanze che nel nostro organismo sono coinvolte nell'insorgere del processo infiammatorio e nella trasmissione del dolore. Le prostaglandine hanno però anche altre importanti funzioni nel nostro organismo, e proprio per questo i Fans, bloccandone l’azione, presentano anche effetti indesiderati da non trascurare.

  • Fatta eccezione per l’acido acetilsalicilico, gli antinfiammatori, se assunti con regolarità ed elevata frequenza, possono aumentare il rischio di complicazioni cardiache o peggiorare le condizioni di salute di chi già soffre di pressione alta.
  • Un altro effetto è che sono irritanti per lo stomaco: fra il 5 e il 10 per cento delle persone che assumono Fans con regolarità nell’arco di un anno potrebbero soffrire di sanguinamento.
  • Infine, per i diabetici è bene sempre consultare il medico prima dell’assunzione dei Fans, perché studi hanno rilevato casi di insufficienze renali in seguito al loro uso.

I consigli di Altroconsumo

  • Per una breve terapia contro il dolore, il farmaco di prima scelta è il paracetamolo: non provoca danni gastrici ed è per questo indicato in particolare per persone che soffrono per problemi di stomaco, donne gravide e bambini. Attenzione però al sovradosaggio, che può dare conseguenze molto gravi soprattutto per il fegato.
  • Utilizza gli antidolorifici solo per periodi brevi. Se il dolore continua, discutine con il tuo medico per scegliere una terapia adeguata.
  • Il dolore è il sintomo di un problema: per eliminarlo, bisogna agire sul problema stesso; per esempio il mal di schiena e i dolori articolari si possono prevenire e contrastare con l'attività fisica e correggendo lo stile di vita.
  • Meglio evitare farmaci che contengono associazioni di diversi princìpi attivi: l’efficacia non migliora e il rischio di effetti indesiderati aumenta.
  • Preferisci i farmaci generici o equivalenti, cioè chiamati con il nome del principio attivo: hanno la stessa efficacia e costano meno.
  • Un’alternativa agli antinfiammatori è il paracetamolo: non provoca danni allo stomaco ed è per questo il farmaco antidolorifico di prima scelta, indicato in particolare per persone che soffrono di problemi di stomaco, donne gravide e bambini.
Radiografia al torace: non prima di tutti gli interventi

Prima di un intervento chirurgico di qualsiasi tipo, è frequente che venga richiesto al paziente di sottoporsi a una radiografia del torace. L'idea è che questo possa portare a identificare condizioni problematiche che sconsiglino l'intervento o comunque portino a rimandarlo o ad avere altre precauzioni particolari. In realtà, si tratta di una pratica inappropriata: eseguire di routine radiografie del torace preoperatorie, se non ci sono motivi specifici legati alla storia clinica del paziente o alla presenza di sintomi particolari riscontrati con una visita medica, non è raccomandato. Una visita preoperatoria attenta e la conoscenza della storia clinica del paziente è generalmente tutto quello che occorre.

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Meglio non esporsi a troppe radiazioni

Una radiografia non è priva di effetti indesiderati.

  • Ogni esame radiografico implica sottoporre il nostro organismo a una dose di raggi X. I rischi legati all'esposizione alle radiazioni si sommano, quindi è meglio evitare il più possibile ogni occasione di esposizione non necessaria.
  • Una radiografia al torace, come qualsiasi esame, può portare a individuare anomalie, spesso innocue, che però comporteranno la necessità di sottoporsi a ulteriori esami per capire di che cosa si tratta.
  • Eseguire una radiografia del torace a tutti i pazienti che devono sottoporsi a un intervento è un aggravio importante per le strutture sanitarie, sia dal punto di vista organizzativo sia dei costi.

Quando può essere consigliabile

Una radiografia al torace prima di un intervento chirurgico può essere consigliabile quando:

  • Ci sono sintomi di problemi al cuore o ai polmoni, come dolore al petto, tosse, respiro corto, caviglie gonfie, febbre, un recente attacco cardiaco, un'influenza o una malattia di bronchi o polmoni che non si risolve.
  • Si hanno problemi al cuore o ai polmoni, anche senza sintomi.
  • Per i pazienti al di sopra dei 70 anni, se non hanno fatto una radiografia del torace da più di 6 mesi.
  • Se l'operazione chirurgica riguarda il cuore o i polmoni.

I consigli di Altroconsumo

  • Prima di sottoporti a qualsiasi intervento chirurgico, parla con il tuo medico fino a che non hai capito a fondo il motivo dell'intervento, i rischi possibili, i benefici sperati. Valuta insieme a lui la possibilità di cure alternative o di attendere per un certo periodo, tenendo sotto controllo il problema, per capire se l'intervento chirurgico è davvero necessario.
  • Una volta stabilito l'intervento, parla con il chirurgo o con un medico da lui delegato, descrivendogli con accuratezza le tue condizioni di salute e la tua storia clinica, ovvero le malattie e gli eventuali interventi che hai avuto in precedenza; ricordati di elencargli in modo preciso tutti i farmaci, integratori e prodotti a base di erbe che assumi, chiedendo se devi sospenderne l'assunzione prima dell'intervento.
Antibiotici, mai di routine

Non è opportuno, benché sia un'abitudine diffusa, prescrivere di routine antibiotici a chi ha contratto un'infezione delle vie aeree superiori, vale a dire una faringite, una laringite, una tonsillite, una sinusite, un'otite e simili. Le infezioni delle vie aeree superiori hanno infatti per lo più origine virale e guariscono spontaneamente in pochi giorni. Bisogna valutare l’opportunità di prescrivere antibiotici soltanto nei pazienti a rischio di estensione dell'infezione alle vie aeree inferiori (cioè di sviluppare una bronchite o una polmonite) o in caso di peggioramento del quadro clinico dopo qualche giorno.

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Più li usi, più diventano inefficaci

L’uso di routine degli antibiotici espone al rischio di sviluppare resistenze nei batteri – il che sta rendendo gli antibiotici meno efficaci - ed effetti collaterali, in particolare a carico dell'intestino. Non tutti lo sanno, ma gli antibiotici non sono farmaci adatti per ogni tipo di malattia. Sono del tutto inutili per quelle causate dai virus, come i raffreddori e le influenze invernali nonché la maggior parte delle infezioni delle vie aeree superiori. Possono servire, invece, contro le infezioni di origine batterica: anzi, sotto questo punto di vista, gli antibiotici sono estremamente efficaci.

I consigli di Altroconsumo

  • Concediti il giusto riposo: il senso di spossatezza provocato dalle malattie virali serve all'organismo a combattere l'infezione. Non è consigliabile assumere farmaci che combattono i sintomi per "tornare subito in forma": eliminare i sintomi non significa combattere la malattia e rischia di rallentare la guarigione.
  • Non confondere i sintomi con la malattia: per esempio la tosse è un sintomo utile, che aiuta l'organismo a espellere il catarro. Anche la febbre è una reazione naturale dell'organismo, utile a combattere virus e batteri: se non dà un fastidio eccessivo e non è troppo alta, non è necessario un antifebbrile.
  • Ricorri a rimedi tradizionali: bere molto aiuta a rendere il muco più liquido e quindi a espellerlo più facilmente; inalazioni e lavaggi nasali con la soluzione fisiologica aiutano a combattere il naso chiuso; una caramella o un gelato possono alleviare il mal di gola.
  • Umidificare l'aria di casa durante la stagione invernale aiuta a mantenere le mucose umide e a contrastarne l'irritazione.
Risonanza al ginocchio: mai di routine

In caso di dolore al ginocchio, sia legato a un trauma (caduta, distorsione, colpo) sia senza una causa apparente, spesso si propone subito al paziente di effettuare una risonanza magnetica (Rm), perfino prima di effettuare una visita ortopedica che porti a stabilire in che direzione bisogna investigare.

Quando applicata di routine, questa pratica è da ritenere inappropriata: la maggior parte delle malattie legate al dolore al ginocchio può infatti essere diagnosticata attraverso la storia clinica, ovvero i problemi che il paziente ha avuto, o l’esame obiettivo, cioè la visita: integrati, se necessario, da una normale radiografia.

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Non aiuta a scegliere la cura e può creare problemi

Se non ci sono segni clinici di allarme, l’utilizzo di Rm del ginocchio, nelle prime 4-6 settimane nel dolore acuto legato a un trauma o nei primi mesi nel dolore senza cause apparenti non modifica la scelta della cura. Invece può portare alla scoperta di problemi che non avrebbero dato fastidio, spingendo a ulteriori esami e addirittura interventi chirurgici non necessari. Inoltre, rappresenta un costo inutile per il paziente e la collettività.

I consigli di Altroconsumo

  • Se si è in sovrappeso, è bene ridurre il peso in eccesso: il sovraccarico peggiora lo stato di salute delle articolazioni del ginocchio, aggravando i disturbi e il dolore. Attenzione tuttavia a mantenere una dieta ricca e ben bilanciata, senza rinunciare a nessun nutriente.Non confondere i sintomi con la malattia: per esempio la tosse è un sintomo utile, che aiuta l'organismo a espellere il catarro. Anche la febbre è una reazione naturale dell'organismo, utile a combattere virus e batteri: se non dà un fastidio eccessivo e non è troppo alta, non è necessario un antifebbrile.
  • Specialmente dopo i 50 anni, è consigliabile praticare con cautela e se è il caso ridurre o evitare del tutto gli sport che comportano una intensa sollecitazione del ginocchio, come il jogging, il tennis, la pallavolo o la pallacanestro; andare in bicicletta invece è utile, perché mantiene i muscoli tonici senza caricare le articolazioni, così come è molto adatto il nuoto.
  • Evitare la sedentarietà e praticare regolarmente esercizio fisico, anche semplicemente una camminata di mezz'ora di buon passo tutti i giorni (10.000 passi al giorno), mantiene buone in generale le condizioni di salute e aiuta a conservare in buona forma anche i muscoli e  le articolazioni del ginocchio.
  • Esercizi appositi possono aiutare a mantenere le articolazioni mobili.
Test per le allergie: non bisogna esagerare

I medici prescrivono troppo spesso i test per determinare la presenza di reazioni allergiche (allergometrici), allo scopo di certificare eventuali allergie a farmaci o alimenti. Questo avviene anche se nella storia personale del paziente (in termini medici: anamnesi) niente fa sospettare che ci sia un rischio particolare di allergia e anche se il paziente non ha sintomi.

Spesso alla vigilia di un intervento chirurgico scatta quasi automaticamente la richiesta di test allergometrici per i farmaci usati per l'anestesia, sia per uso locale sia generale. Si tratta di una pratica impropria frequente, specie nei pazienti che hanno una storia clinica di sospetta o accertata allergia ad altri agenti non correlati ai farmaci. Per esempio, siccome un paziente è allergico agli acari della polvere o ai pollini, allora viene sottoposto ai test allergometrici per un anestetico.

I test allergometrici per allergeni alimentari, invece, sono spesso richiesti per la presenza di sintomi che in realtà non dovrebbero invece far sospettare allergie: gonfiore cronico all'addome dopo i pasti, cefalea, alitosi, afte in bocca.

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Non è una pratica razionale e può creare problemi

Recenti studi scientifici mettono in luce che questa pratica non è razionale e nemmeno priva di rischi.

  • Si rischia di non dare al paziente i farmaci di cui ha bisogno o di limitare la sua alimentazione in modo arbitrario e inadeguato, sebbene in realtà non sia allergico.
  • Sottoponendo il paziente a test allergometrici inutili si potrebbero creare nuove sensibilizzazioni agli allergeni testati.

In un paziente senza sintomi che portino a sospettare un rischio particolare che vada incontro a una reazione allergica, un risultato positivo al test allergometrico indica solo una sensibilizzazione del sistema immunitario all’antigene testato, ma non significa che in futuro la persona andrà effettivamente incontro a reazioni allergiche. In modo uguale e contrario, una risposta negativa ai test certifica solo che quel paziente non è sensibile in questo momento al dato allergene, ma non dice niente sulle sue future possibili allergie. Insomma, in questo caso i test rischiano di essere al tempo stesso inutilmente allarmanti o falsamente rassicuranti.

I consigli di Altroconsumo

  • È importante che, prima di prendere qualsiasi decisione in merito a test allergometrici, il medico raccolga quante più informazioni possibili sul paziente e sulla sua storia clinica, valutando bene le sospette allergie, così da indirizzarlo correttamente, evitando gli sprechi.
  • Non chiedere di essere sottoposto a test allergici se non hai sintomi di allergia né, se hai sintomi, per sostanze diverse da quelle cui sei allergico.
  • Se hai sintomi a carico dello stomaco e dell'intestino, per prima cosa rivolgiti a un gastroenterologo: infatti questi sintomi non sono quasi mai determinati da allergie alimentari. Se dagli esami gastroenterologici emerge il sospetto di una rara malattia con componenti allergiche, solo allora è corretto rivolgersi a un allergologo.
Aerosol al cortisone: ai bambini spesso non serve

Molto spesso il pediatra prescrive "un po’ di aerosol con il cortisone” ai bambini, anche molto piccoli, con tosse e/o raffreddore. E spesso è una scelta inappropriata. Le infezioni delle vie respiratorie superiori (naso, bocca, faringe e laringe) sono le malattie più frequenti nei bambini. Quasi sempre a causarle è un virus stagionale. Guariscono spontaneamente nell’arco di una settimana o poco più. Soprattutto nel periodo invernale i più penalizzati dai virus sono i neonati. La tosse persistente e la richiesta di una terapia per risolverla sono le motivazioni più frequenti delle consultazioni telefoniche e delle visite pediatriche. Secondo i dati dell’Osservatorio ARNO bambini (un sistema di sorveglianza continua sulle prescrizioni dei medici del Servizio sanitario nazionale), i cortisonici inalatori sono tra i primi 15 farmaci più prescritti in Italia. I nomi dei principi attivi in commercio sono Beclometasone, Budesonide, Flunisolide e Fluticasone.

Perché un aerosol spesso non è consigliabile

  • Non ci sono prove che i farmaci cortisonici inalatori siano efficaci per la cura della tosse: al contrario, è dimostrato che il loro uso non accorcia la durata dei sintomi delle infiammazioni acute delle prime vie respiratorie.
  • I cortisonici per inalazione sono davvero indispensabili nel trattamento di poche condizioni ben definite, che sono: l'attacco d'asma, l'asma cronica e la laringite acuta stenosante infettiva, detta anche croup.

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I consigli di Altroconsumo

  • In caso di raffredore e mal di gola alcuni rimedi tradizionali sono assolutamente validi. Come quello di tenere sempre pulito il naso del bambino, così non respirerà con la bocca, aumentando il rischio di tosse dovuta all'irritazione della gola. Anche bere spesso acqua, o bevande calde con miele, è un ottimo rimedio.
  • Usa i cortisonici inalatori solo in presenza di indicazioni mediche e nelle sole situazioni in cui la loro efficacia è provata.
  • Apri spesso le finestre di casa, anche in inverno, per ridurre la concentrazione di microbi e sostanze irritanti. Non riscaldare troppo l’ambiente e contrasta la secchezza causata dai termosifoni accesi umidificando l'aria.
  • Ricorda che la gola infiammata e il raffreddore sono malattie che passano da sole ed è improbabile riuscire ad accelerare la guarigione.
Non sprecare risorse, scegli i farmaci equivalenti

Ne abbiamo parlato molte volte, ma vale sempre la pena ritornarci. I farmaci equivalenti sono farmaci identici al farmaco di riferimento (farmaco “di marca” o “griffato”) , l’unica differenza è che sono venduti con il nome del principio attivo seguito dal nome dell’azienda produttrice. Per il resto, sono uguali in tutto e per tutto ai loro corrispondenti di marca. Soprattutto, mantengono la stessa efficacia e qualità, e costano decisamente meno (intorno al 20% in meno). Il processo di produzione, distribuzione e conservazione del farmaco equivalente è sottoposto agli stessi controlli di quelli del farmaco di marca che, come per tutti i farmaci, proseguono anche dopo l’immissione in commercio.

Ricorrere inutilmente ai farmaci di marca è uno spreco sia per il Servizo sanitario sia per i cittadini, che devono pagare la differenza tra il prezzo del farmaco di marca e il prezzo di riferimento (quello che il Servizio sanitario nazionale paga). Nel 2016 i cittadini hanno pagato più di un miliardo di euro per avere, quasi sempre inutilmente, farmaci “griffati”. Esistono farmaci equivalenti anche per i farmaci in classe C (quelli non rimborsati dal SSN). Chiedi sempre al farmacista se sono disponibili farmaci equivalenti a minor costo.

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Puoi consultare anche la nostra banca dati farmaci, per vedere se esiste il farmaco equivalente di quel determinato medicinale.

Trova il farmaco meno caro

Acqua: dal rubinetto è meglio

E' meglio scegliere l’acqua del rubinetto invece dell’acqua minerale a casa: è infatti altrettanto buona, sicura e controllata. L’acqua minerale in bottiglia non è necessariamente più salutare, incide negativamente sull’ambiente e rappresenta una spesa inutile.

Perché l’acqua del rubinetto è sicura?

Come facciamo a sapere che l'acqua del rubinetto è sicura? Ecco alcune ragioni.

  • L’acqua dell’acquedotto arriva direttamente a domicilio ed è sottoposta a regolari controlli di qualità; possiede composizione chimica e caratteristiche di sapore, odore e colore pari a quelle dell’acqua venduta in bottiglia. Gli esami, regolati dalla legge, sono frequenti e completi.
  • La legge regolamenta con precisione le caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche dell’acqua potabile. Vengono fissati valori guida per la durezza (ricchezza di calcare) e di concentrazione massima ammissibile per diverse sostanze importanti per la salute.

Perché l’acqua minerale in bottiglia non è migliore dell’acqua del rubinetto?

Anche l'acqua minerale può avere dei problemi.

  • Anche l’acqua in bottiglia ha caratteristiche chimiche che dipendono dalla provenienza idrogeologica e potrebbero risultare in una composizione non adatta per tutti o per tutte le fasi della vita: dovrebbe essere utilizzata solo per specifiche condizioni o esigenze di salute. Normalmente non è necessario scegliere un’acqua minerale a basso contenuto di sodio o ricca di calcio.
  • Le acque minerali possono avere problemi di contaminazione legati al fatto che stanno per mesi in bottiglie di plastica o a eventuali inquinanti presenti nell’aria dei locali dove sono conservate le bottiglie.
  • L’inquinamento delle falde acquifere sotterranee può interessare anche le sorgenti di acque minerali: non tutte le fonti sono in alta quota e sono quindi esposte a contaminazione quanto le falde destinate all’acqua di casa.

Ma è sull’ambiente che il consumo di acqua in bottiglia di plastica fa sentire tutto il suo peso: in Italia il consumo di acqua minerale comporta l‘immissione nell’ambiente di 11 miliardi di bottiglie all’anno, una quantità che appesantisce il già difficile bilancio del riciclo della plastica. A questo si aggiunge l’impatto legato al trasporto delle bottiglie di acqua minerale su gomma, con emissione di inquinanti a effetto serra che aggravano la crisi del clima.

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I consigli di Altroconsumo

  • Non decidere da solo che hai bisogno di un’acqua diversa da quella del rubinetto e non farti influenzare dalla pubblicità. Per disturbi di salute particolari, chiedi al medico se è il caso di ricorrere a un’acqua particolare.
  • Se il problema è il sentore di cloro, puoi lasciare l’acqua in una brocca in frigorifero per circa 30 minuti prima di consumarla. Se ci sono altri problemi, puoi ricorrere a una brocca filtrante: le abbiamo testate su Altroconsumo Inchieste 338, luglio 2019.
  • Se ti piace l’acqua frizzante, puoi ricorrere a un gassatore: li abbiamo testati su Altroconsumo Inchieste 338, luglio 2019. Oppure puoi attingerla alle “case dell’acqua” messe a disposizione da molti Comuni.
  • Se proprio non vuoi rinunciare all’acqua minerale, dal punto di vista ambientale è preferibile l’acqua in bottiglie di vetro con vuoto a rendere.
Anziani: la contenzione fisica non è sempre necessaria

La contenzione fisica utilizzata per la prevenzione delle cadute nell’anziano (per esempio cinghia per il letto, cintura di contenzione, sponde...), emerge in misura sempre maggiore come non appropriata: oltre a essere avvilente può infatti rivelarsi pericolosa e inefficace. Le motivazioni sono diverse.

  • In letteratura non vi è alcuna prova scientifica che indichi che la contenzione fisica prevenga le cadute dei pazienti. Una revisione del 2019 su efficacia clinica e linee guida ha concluso che l’efficacia dell’utilizzo della contenzione fisica in anziani ricoverati rimane incerta per la mancanza di studi validi disponibili.
  • In generale, gli anziani continuano a cadere indipendentemente dall’utilizzo o meno della contenzione fisica.

Inoltre, ricorrere a misure di contenzione fisica per la prevenzione delle cadute nell’anziano può comportare pericoli.

  • I mezzi di contenzione meccanica possono provocare effetti indesiderati. La contenzione fisica infatti può essere causa di lesioni di diverso tipo e conseguenze fisiche negative anche gravi (debolezza muscolare, alterazione della circolazione, incontinenza...) e pone la persona a rischio di declino funzionale.
  • Sono da considerare i possibili danni psicologici.
  • Nel paziente anziano ricoverato la contenzione può essere la causa di più problemi di quelli che risolve, con complicazioni anche gravi e perfino mortali.

Le alternative alla contenzione

Le condizioni per le quali spesso è applicata la contenzione richiedono al suo posto una valutazione e attenzione immediata alla persona, con una cura di qualità e sicura grazie a un lavoro interdisciplinare che permetta di anticipare, identificare e indirizzarsi rispetto ai problemi, consultando anche familiari e caregiver sulle abitudini e i comportamenti del paziente.

La contenzione deve essere presa in considerazione solo come ultima risorsa, nella misura meno restrittiva possibile, proporzionale al rischio. Bisogna ottenere il consenso informato della persona o se impossibile dei familiari e deve essere monitorata e utilizzata per il minor tempo possibile, con sistemi sicuri ed efficaci nel ridurre i comportamenti a rischio.

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I consigli di Altroconsumo

Nel caso delle misure di contenzione è importante che ci sia il massimo accordo tra familiari e personale sanitario. Un primo consiglio è sicuramente cercare di evitare ogni tipo di conflitto, mantenendosi nei termini di un rapporto di fiducia, di ascolto reciproco e di dialogo. Una eventuale contenzione a un proprio familiare deve però avere sempre motivi molto ben chiari e condivisi, inclusa una previsione della sua durata.

Una buona informazione sul paziente ricoverato è importante per mettere in atto misure preventive alternative alla contenzione; è consigliabile quindi descrivere con fiducia e chiarezza al personale sanitario i suoi comportamenti abituali, cercando di non dimenticare niente: le sue abitudini, le sue modalità di comunicazione, cosa gli piace, come esprime il dolore o le sue necessità.

Esistono strumenti per evitare cadute, come calzature antiscivolo, letto addossato al muro, materasso per terra. La soluzione principale resta però la presenza di una persona accanto al paziente: può essere quindi importante la disponibilità dei familiari a restare vicino alla persona durante il ricovero.

Taglio cesareo: uno non tira l'altro

La stragrande maggioranza delle donne che hanno già avuto un cesareo è sottoposta a un altro cesareo alla gravidanza successiva. Si tratta di una pratica a rischio di inappropriatezza: in assenza di controindicazioni specifiche, le società scientifiche consigliano per chi ha già avuto un cesareola possibilità di fare il travaglio (e quindi il parto naturale), con l'importante raccomandazione che siano assistite nei punti nascita in cui sia eseguibile un cesareo di emergenza.

Perché ripetere il cesareo in donne che hanno avuto un precedente cesareo è spesso inappropriato?

  • Come tutti gli interventi chirurgici, seppure sicuro nella gran parte dei casi, il taglio cesareo può avere complicanze a breve e lungo termine maggiori rispetto al parto per via vaginale sia sulla mamma sia sul bambino.
  • Rappresenta un evento più invasivo e complesso rispetto al parto vaginale e studi scientifici indicano che tagli cesarei ripetuti aumentano i rischi per la salute della donna.

Quando deve essere considerato il taglio cesareo?

ll taglio cesareo oggi è indispensabile nelle donne che hanno già avuto un cesareo quando il parto vaginale presenta rischi superiori a quelli di un cesareo ripetuto.

  • Se non c'è la possibilità di effettuare un eventuale cesareo in emergenza.
  • Se la placenta è previa.
  • Se c’è stata una pregressa rottura dell’utero o incisioni e cicatrici uterine, per interventi ginecologici come l’asportazione di un fibroma, o se la paziente ha avuto tre o più tagli cesarei precedenti. Se si sono avuti  due tagli cesarei precedenti, l’accesso al parto per via vaginale richiede un'attenta valutazione dei  rischi.

Molti sono i fattori da prendere in considerazione con il ginecologo curante tra cui: il tempo passato dal precedente cesareo, l’età della donna e il suo peso, l’età gestazionale, la storia delle gravidanze precedenti, il peso del bambino superiore ai 4 kg e altri aspetti ancora.

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Travaglio: digiunare non serve

Tradizionalmente durante il travaglio di parto alle donne non è consentito assumere liquidi né alimenti e viene loro indicato il digiuno e proibito di bere. Oltre a provocare un disagio, il rischio di questa pratica è anche quello di non sostenere adeguatamente l’organismo in un momento in cui le richieste energetiche sono intense per il travaglio in corso.

Perché non consentire alle donne di assumere liquidi o alimenti durante il travaglio di parto è una pratica a rischio di essere inappropriata?

L’indicazione all’astensione da alimenti solidi e liquidi durante il travaglio trova spiegazione nel rischio della sindrome di Mendelson, una polmonite di origine chimica causata dall’aspirazione del succo gastrico durante un'anestesia generale. Tuttavia, dagli anni in cui è stata descritta la sindrome a oggi le pratiche anestesiologiche in ostetricia sono molto cambiate: di solito viene utilizzata l’anestesia peridurale o spinale, mentre è raro l’uso di una anestesia generale.

  • Gli studi che hanno confrontato i casi in cui era applicata la restrizione rispetto all'alimentazione non hanno evidenziato differenze negli esiti neonatali, né sono emersi effetti dannosi che giustifichino il divieto assoluto di bere e mangiare.
  • In una revisione sugli studi clinici sulla restrizione di liquidi e solidi durante il travaglio gli autori hanno concluso che per le donne a basso rischio di complicazioni (rischio basso di dover ricorrere ad anestesia) le prove non mostrano beneficio o danno e che non vi è giustificazione a questa indicazione. In donne a basso rischio di complicazioni non ci sono prove sufficienti per dare raccomandazioni rispetto alla nutrizione.
  • In questi casi, se la donna  lo richiede ed è in grado di assumerli, può prendere liquidi, come acqua, succo di mela, tè, caffè, o alimenti leggeri, come ghiaccioli, marmellate, gelatine di frutta e gelato alla frutta.

Perché serve alimentarsi?

  • Le contrazioni uterine, il dolore, la perdita di liquidi collegata alla sudorazione e al respiro affannoso durante il travaglio di parto comportano un alto dispendio energetico da parte dell’organismo.
  • Inoltre un digiuno prolungato può essere causa di chetosi (l’organismo produce energia bruciando i grassi) e i succhi gastrici possono diventare maggiormente pericolosi in caso di inalazione.
  • Il digiuno può avere effetti anche a livello psicologico sul benessere della donna e diventare possibile fonte di disagio e sofferenza.

Per tutti questi motivi impedire l'assunzione di alimenti e liquidi rischia di essere una pratica inappropriata.

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I consigli di Altroconsumo

  • La donna durante la gravidanza non deve "mangiare per due": l'aumento del fabbisogno calorico quotidiano è di circa 300 calorie (l'equivalente di cappuccino e brioche).
  • Vanno incluse nell'alimentazione quotidiana abbondanti quantità di frutta e verdura (da lavare accuratamente prima del consumo), che sono anche un'ottima fonte di fibre, insieme a cereali integrali, carboidrati complessi (come pasta, pane e riso), pesce, carne e legumi per un corretto apporto di proteine, e poi latte, formaggio e yogurt. Le barbabietole sono la fonte più ricca di ferro. Il condimento da preferire è l'olio extravergine di oliva.
  • No ai formaggi a pasta molle a base di latte crudo, con muffe (camembert, brie) e a quelli con venature blu; evitare anche carne cruda e insaccati, frutti di mare crudi, patè, fegato e i suoi derivati.
  • Limitare dolci e zucchero. Non superare le tre tazzine di caffè al giorno, eliminare superalcolici e fumo. Via libera invece a un bicchiere di vino al pasto.
Fitoestrogeni in menopausa

Stando alle prove che emergono dagli studi non è consigliabile assumere fitoestrogeni in menopausa.

Che cosa sono i fitoestrogeni?

I fitoestrogeni sono composti di origine vegetale con una struttura chimica simile al principale ormone sessuale femminile, l'estrogeno.

  • Sono presenti in numerose piante e contenuti in alte quantità nella soia, ma anche nei semi di segale e lino, e nel trifoglio rosso.
  • I principali gruppi di fitoestrogeni presenti nella dieta sono gli isoflavonoidi, i preniflavonoidi, i cumestani e i lignani.
  • Benché talvolta consigliati alle donne in menopausa, soprattutto per la loro presunta azione contro i sintomi fastidiosi (vampate di calore, sudorazioni, secchezza vaginale), non hanno efficacia dimostrata e non sono privi di possibili effetti indesiderati (soprattutto dolori addominali e muscolari).

Assumerli in menopausa è quindi una pratica da considerare a rischio di inappropriatezza.

Perché ricorrere ai fitoestrogeni in menopausa non è consigliabile?

In menopausa avviene un fisiologico calo degli estrogeni, che può comportare i sintomi fastidiosi che frequentemente si presentano in questa fase della vita e un aumento del rischio di alcune malattie, in particolare disturbi cardiovascolari e osteoporosi.

  • I fitoestrogeni, per la loro struttura chimica, sono in grado sia di esercitare un'azione simile a quella dell'estrogeno (effetto estrogenico) sia di inibirne l'azione (effetto anti-estrogenico), in quest'ultimo caso andando a occupare i recettori cui si lega l'estrogeno stesso e quindi impedendone l'azione.
  • Un'analisi della letteratura scientifica mostra però che ad oggi non ci sono prove sufficienti di effetti benefici né sui sintomi né sui disturbi della salute connessi alla menopausa, mentre non mancano effetti indesiderati.
  • Stando alle prove che emergono dagli studi non è consigliabile assumere fitoestrogeni in menopausa. Da notare anche che, non essendo farmaci, gli integratori non sono sottoposti alle stesse prove di qualità, tollerabilità ed efficacia richieste ai medicinali prima di essere messi in commercio.

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I consigli di Altroconsumo

  • La menopausa non è una malattia, ma una fase della vita, in cui avvengono alcuni cambiamenti fisiologici. Può essere un'occasione per prendersi maggiormente cura di sé e ripensare al proprio stile di vita.
  • Non dimenticare l'attività fisica quotidiana. Anche camminare di buon passo va bene. Migliora la resistenza muscolare; previene l’osteoporosi; previene ipertensione, diabete e ipercolesterolemia; combatte lo stress.
  • Preferisci cibi semplici e varia gli alimenti, preferendo quelli di origine vegetale, legumi inclusi; consuma anche cereali integrali; bevi ogni volta che hai sete o senti le labbra secche (bere tanto aiuta anche la pelle); in linea di massima un’alimentazione varia basta ad assumere la quantità giusta di calcio.
  • In generale, è bene sottoporsi agli screening raccomandati e offerti dal servizio sanitario (Pap test, tumore al seno e colon retto) e controllare il rischio cardiovascolare (misurazioni di pressione, glicemia, colesterolo). La Moc invece è consigliabile solo se ci sono fattori di rischio specifici per l’osteoporosi.<
  • Per la secchezza vaginale può aiutare l'applicazione di un semplice gel umettante.
Troppi farmaci agli anziani

È a rischio di essere inappropriata ogni prescrizione di un nuovo farmaco a una persona anziana (sopra i 75 anni), senza che prima sia stata condotta un'attenta revisione della terapia farmacologica già in corso (riconciliazione terapeutica).

Perché prescrivere un nuovo farmaco a un anziano senza riconsiderare la terapia farmacologica già in corso è da considerare inappropriato?

  • Il paziente anziano può presentare numerosi problemi di salute per cui viene seguito da specialisti diversi, che prescrivono farmaci specifici per ogni malattia. Di conseguenza spesso la terapia farmacologica è costituita da numerose sostanze con differenti indicazioni terapeutiche, dosaggi e orari di somministrazione.
  • In chi assume più farmaci il rischio di reazioni avverse aumenta: i vari medicinali possono interagire tra loro, fino ad arrivare a causare gravi effetti indesiderati.
  • Gli anziani sono maggiormente esposti a questi rischi in quanto frequentemente assumono in modo stabile almeno cinque diversi farmaci (la cosiddetta polifarmacoterapia).
  • Nei pazienti anziani (sopra i 75 anni) si calcola che circa il 10% dei ricoveri ospedalieri sia dovuto ad effetti indesiderati dei farmaci.

Perché prescrivere un nuovo farmaco a un anziano senza riconsiderare la terapia farmacologica già in corso può comportare pericoli?

  • La polifarmacoterapia può portare, oltre che a una riduzione dell’aderenza terapeutica alle prescrizioni (nel seguire le indicazioni sui farmaci da assumere, i dosaggi, gli orari), a un aumento del rischio di declino cognitivo e funzionale, a un incremento di cadute e fratture, di ricoveri in ospedale e infine di mortalità.
  • Un utilizzo non appropriato di più farmaci può aumentare sia i rischi sia i costi per la persona e per la collettività.

Come ci si deve comportare prima di prescrivere un nuovo farmaco nell’anziano?

  • È cruciale che il medico curante revisioni regolarmente tutta la terapia del paziente anziano, a maggior ragione ogni qualvolta intenda prescrivergli un nuovo farmaco.
  • L’eventuale sospensione dei medicinali deve essere condotta in modo ponderato, per non incorrere in ulteriori rischi: la revisione terapeutica è un processo condotto dal medico con il coinvolgimento attivo e consapevole del paziente, della sua famiglia/caregiver, del farmacista di fiducia.

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I consigli di Altroconsumo

  • L'assunzione di un farmaco - anche di un farmaco da banco e di un integratore - non dovrebbe mai esser considerata un gesto banale, ma sempre una scelta da soppesare valutandone con attenzione i rischi e i benefici.
  • Prima di assumere un farmaco, a maggior ragione un farmaco per un disturbo cronico legato all'età, come l'ipertensione o l'ipercolesterolemia, chiedi al tuo medico curante quali modifiche dello stile di vita potrebbero essere utili a ridurre o eliminare la necessità di assumere il farmaco.
  • Ricordati di informare sempre il medico di tutti i farmaci che stai assumendo, inclusi gli eventuali integratori alimentari e rimedi a base di erbe (fitoterapia).
  • Poni sempre al medico domande a proposito dei farmaci: sulle diverse opzioni, sui pro e contro, sui possibili cambiamenti nella terapia, chiedendo se ci siano farmaci da aggiungere, sospendere o modificare e perché, quali molecole siano necessarie e perché, come vadano assunte e per quanto tempo, come controllarne gli effetti, sia voluti sia indesiderati, come debba avvenire il monitoraggio della terapia con esami e visite.
Statine e anziani

Nei pazienti anziani con più di 80 anni, in particolare se fragili, è bene soppesare con grande prudenza l'opportunità di prescrivere statine in prevenzione primaria, ovvero per prevenire disturbi cardiovascolari in persone a rischio che non ne abbiano già sofferto.

I rischi connessi all’assunzione di questi farmaci potrebbero infatti essere superiori ai benefici.

Perché si assumono le statine?

La terapia con statine, farmaci che abbassano il livello di colesterolo nel sangue, può essere prescritta in prevenzione cardiovascolare primaria o secondaria.

  • La prevenzione primaria mira a trattare persone con elevato rischio di malattie cardiovascolari, ma che non abbiano mai avuto in precedenza un problema clinico in questo ambito; nei pazienti anziani mancano solidi dati della letteratura scientifica a sostegno dell’utilità di questa terapia (i soggetti oltre gli 80 anni sono generalmente esclusi dagli studi clinici).
  • La prevenzione secondaria è invece indirizzata ai pazienti che hanno già avuto una malattia cardiovascolare (per esempio un infarto del miocardio o un ictus cerebrale), condizione in cui le statine si sono dimostrate efficaci nel ridurre il rischio di ricaduta di queste malattie

Perché prescrivere statine agli anziani in prevenzione primaria non è consigliabile?

Le statine vanno prescritte con prudenza negli anziani in quanto essi presentano spesso diverse condizioni che possono aumentare il rischio di effetti indesiderati.

In particolare:

  • assunzione di diversi farmaci contemporaneamente (polifarmacoterapia), con possibili interazioni tra farmaci (vedi anche la scheda "Troppi farmaci insieme nei pazienti anziani");
  • alterazioni della funzionalità dei reni o del fegato.

La popolazione anziana appare più soggetta agli effetti indesiderati legati al trattamento con le statine (tossicità a livello muscolare, aumento degli enzimi del fegato, aumento dell’incidenza di diabete e possibile peggioramento del declino cognitivo).

Le persone anziane possono essere per loro natura fragili

Un altro aspetto importante da considerare è che le persone anziane possono essere per loro natura fragili, ovvero in uno stato di vulnerabilità legato all’invecchiamento, che comporta la diminuzione della capacità dell’organismo di far fronte adeguatamente a un evento avverso (per esempio un’influenza, una bronchite). Nei pazienti affetti da fragilità non vi sono indicazioni a iniziare o a continuare la terapia con statine in ambito di prevenzione primaria, perché questi farmaci non produrranno un beneficio clinico misurabile se l'aspettativa di vita è inferiore ai dieci anni.

Anche la prescrizione di statine in prevenzione secondaria andrà attentamente soppesata in questi soggetti.

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I consigli di Altroconsumo contro il rischio cardiovascolare

  • Non fumare
  • Fare regolarmente attività fisica quotidiana (passeggiate, bicicletta, jogging, nuoto, danza, palestra...). Anche camminare di buon passo mezz’ora al giorno va bene.
  • Introdurre nella dieta alimenti utili Tra i cibi che hanno un’azione benefica dimostrata sul colesterolo: cereali integrali (anche sotto forma di pane e pasta), in particolare avena e orzo; legumi (fagioli, lenticchie, ceci, da consumare più volte alla settimana); molta frutta e verdura in generale (soprattutto melanzane, carciofi, okra); noci, mandorle, nocciole, arachidi e pistacchi (senza sale); soia e derivati (meglio i fagioli di soia che i derivati); tè verde; gli steroli vegetali sono utili se assorbiti attraverso i cibi che ne sono ricchi, come i semi (certo meglio delle integrazioni ad alte dosi).
  • Consumare pesce due volte a settimana . Si può scegliere tra pesce azzurro (sarde, sardine, sgombri), tonno, salmone.
  • Utilizzare l’olio di oliva per condire e in cucina, al posto del burro o altri grassi animali.
  • Ridurre i cibi di origine animale, in particolare le carni rosse e i salumi, i formaggi, burro, margarina, cibi fritti.
Disturbi dell’alimentazione: l’importanza di agire su tutti i fronti

Stando a dati recentemente divulgati dall’Adi - Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica, nell’ultimo periodo i casi di disturbi alimentari - come anoressia nervosa o bulimia nervosa - sono aumentati del 30% rispetto al 2019-2020. Secondo i dati più recenti del Ministero della Salute in Italia sono circa 3 milioni i giovani che ne soffrono: di cui il 95,9% sono donne e il 4,1% uomini.

L’approccio multidisciplinare nei disturbi alimentari

È importante curare i disturbi del comportamento alimentare con un approccio multidisciplinare. Si tratta infatti di malattie mentali gravi, che intaccano in modo importante la salute psichica e fisica della persona, alterandone la sfera sociale e relazionale. Il loro trattamento - che varierà a seconda della gravità del caso – deve prevedere più figure professionali e ambiti di cura adeguati.

  • Nei disturbi alimentari gioca un ruolo la combinazione di fattori sia genetici sia ambientali: non c’è una causa unica, ma un’origine multifattoriale, ovvero incide la presenza concomitante di una serie di fattori che possono favorirne la comparsa e il mantenimento.
  • Si tratta di malattie mentali complesse, che attraverso un malessere fisico esprimono un disagio psicologico. Tra i disturbi mentali, sono quelli con il tasso di mortalità più alto tra i giovani.

Trattare i disturbi alimentari in assenza di competenze multidisciplinari è una pratica che rischia di essere inappropriata.

Quali sono le differenti figure professionali coinvolte?

L’approccio ai disturbi alimentari deve prevedere il coinvolgimento di differenti figure: psichiatri/neuropsichiatri infantili, medici con competenze nutrizionali, internisti, pediatri, endocrinologi, dietisti, psicologi, infermieri, educatori professionali, tecnici della riabilitazione psichiatrica e fisioterapisti.

  • Tutte devono essere coinvolte nei diversi ambiti sanitari di competenza, in coordinamento e in un lavoro condiviso nelle differenti fasi di cura.
  • Il trattamento non è limitato all’aspetto nutrizionale. Questo fa parte di un programma di intervento più complesso e sfaccettato, che include le diverse cure mediche e specialistiche, con una particolare attenzione al versante psicosociale.

A chi rivolgersi per la cura di un disturbo alimentare?

  • Il primo riferimento può essere il medico di famiglia o il pediatra, che fa da tramite con i servizi delle reti regionali dei disturbi alimentari.
  • È importante appoggiarsi ai centri specializzati, dove il progetto terapeutico può essere realizzato sui diversi versanti specialistici integrati.
  • L’importanza di un lavoro in gruppo delle diverse figure professionali, per far sì che il percorso di questi pazienti sia completo ed efficace, è sottolineato come indispensabile anche in situazioni di urgenza, nell’ambito degli accessi in Pronto Soccorso.

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Tre punti importanti: collaborazione del paziente, famiglia, guarigione

  • Se il paziente non collabora. Una delle difficoltà che può incontrare un programma di cura è la scarsa collaborazione dei pazienti, che faticano ad avere consapevolezza del loro disturbo e a essere motivati nel seguire il trattamento; un approccio multidisciplinare che contempli il versante psicologico e una condivisione con il paziente delle scelte terapeutiche e delle sue difficoltà è quindi molto importante a sostegno dell’intervento nutrizionale.
  • Dare sostegno a tutta la famiglia. L’impatto dei disturbi alimentari non è soltanto sul benessere della persona con il disturbo, ma anche della sua famiglia, che deve essere sostenuta e non deve sentirsi responsabile della situazione: la famiglia non va vissuta come una causa, al contrario è una risorsa, una preziosa alleata del paziente e degli specialisti nel processo di cura, in cui deve essere coinvolta.
  • Si può guarire completamente. I disturbi alimentari possono essere curati, con un trattamento sugli aspetti psicologici, sociali, nutrizionali e medici, e il recupero completo è possibile, in particolare se viene effettuata una diagnosi precoce e un trattamento terapeutico di qualità, tempestivo, che sia specializzato e integrato.
Enuresi notturna: cosa fare dopo i sei anni

Sotto i sei anni, se i bambini o le bambine fanno ancora la pipì a letto, e non presentano altri sintomi relativi alla pipì durante il giorno, è normale: non c'è bisogno né di una visita specialistica né di approfondimenti diagnostici né di farmaci. Se dura dopo i sei anni, alcuni accorgimenti pratici possono aiutare.

Quando fare la pipì a letto è normale?

  • Nei bambini, soprattutto i maschi, di età inferiore ai cinque anni bagnare il letto è comune e considerato fisiologico.
  • Fino ai sei-sette anni non è il caso di allarmarsi né di pensare a visite ed esami, che nella maggior parte dei casi non si dimostrano utili. Questo raccomandano le principali linee guida.
  • Bisogna solo verificare che non ci sia una anomala produzione di grandi quantità di urina (poliuria), con eliminazione troppo abbondante di liquidi: in questo caso potrebbe esserci un problema e deve essere comunicato al pediatra.

Quando è il caso di cominciare a preoccuparsi?

Se il bambino dopo i sei anni continua a bagnare il letto di notte, allora si può parlare di enuresi, ovvero di un disturbo da segnalare al pediatra, purché l’incontinenza notturna abbia:

  • una durata minima di tre mesi consecutivi;
  • una frequenza minima di una volta al mese.

Che cosa ci consiglierà il pediatra?

La prima cosa che il pediatra farà è accertare che non sia associata ad altri sintomi.

È importante anche l'anamnesi familiare, ovvero sapere se altre persone in famiglia hanno avuto lo stesso problema.

Il pediatra potrà ricorrere a strumenti diagnostici semplici e non invasivi, come:

  • il diario minzionale, ovvero l'annotazione di ogni volta che il bambino fa pipì, con le relative quantità e modalità;
  • il calendario delle notti asciutte e bagnate;
  • un semplice esame delle urine.

È stato dimostrato che il 15-20% dei bambini trae già beneficio dalla sola compilazione del diario e del calendario.

Sono necessari inoltre consigli di comportamento, in particolare che il bambino beva la maggior parte dei liquidi necessari durante la giornata, riducendoli dopo cena. Eventualmente, solo se le modifiche del comportamento non fossero sufficienti, il pediatra può valutare un trattamento farmacologico.

Da sottolineare che l’enuresi monosintomatica non è attribuibile a cause psicologiche, ma può essa stessa creare un disagio emotivo nel bambino e nella famiglia.

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Pipì a letto dopo i sei anni: i consigli utili

  • Se l'incontinenza notturna persiste dopo i sei anni di vita, può essere utile seguire una terapia comportamentale per almeno sei mesi.
  • Può essere necessario trattare un'eventuale stitichezza associata all’enuresi: a volte risolverla basta per far cessare il problema.
  • L’enuresi può generare nei bambini una bassa autostima e isolamento sociale: per questo la terapia comportamentale ha una prima fase educativa, che può aiutare sia i genitori sia il bambino a capire il problema e a migliorare la motivazione nel risolverlo.
  • La terapia comportamentale prevede anche la spiegazione pratica di comportamenti che possano scongiurare gli episodi di incontinenza notturna: verranno riviste le abitudini alimentari rispetto alla quantità e distribuzione durante il giorno di cibi e bevande: per esempio, nell’ora e mezza prima di dormire ridurre al minimo l’introito dei liquidi, svuotare la vescica prima di andare a letto e non bere durante la notte.