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Luci e ombre dei vestiti anti-UV: bene i prodotti testati, ma servono regole precise

I capi anti-UV possono rappresentare una buona protezione aggiuntiva per chi passa molto tempo all'aperto, sotto il sole. Il test promuove molti modelli, ma rilancia l’urgenza di regole precise per garantire più trasparenza e sicurezza.

14 giugno 2023
famiglia sotto l'ombrellone

Anche il sole ha il suo lato oscuro. Ce lo ricordano ormai da anni, alle soglie dell’estate, le campagne di sensibilizzazione sul melanoma, il più temibile tumore cutaneo. Da fonte di buonumore e salute, perché indispensabile per produrre vitamina D e rinforzare il sistema immunitario, il sole può diventare il più pericoloso nemico per la pelle, se ci si offre ai suoi piacevoli raggi in modo eccessivo e senza difese. Fermo restando che la protezione totale non esiste, come limitare il più possibile i danni da UV? L’ABC salva-pelle lo conosciamo ormai tutti a memoria: ombra nelle ore centrali della giornata, quando il sole è più alto, e creme solari con un indice di protezione adeguato al fototipo, da applicare ogni due ore e dopo il bagno.

Gli “aiutanti” delle creme solari

Non solo creme e spray con vari SPF (fattore di protezione). Dell’arsenale difensivo per respingere gli attacchi degli ultravioletti fanno parte anche cappellini, occhiali da sole e i più disparati “abiti da spiaggia” (parei, t-shirt, body…). A contatto con la pelle, infatti, qualunque tessuto crea una vera barriera fisica in grado di bloccare la strada a una parte più o meno consistente di UV. Più fitta è la trama, maggiore (ma mai totale) sarà l’effetto-scudo. Perché non sfruttare questa proprietà intrinseca dei prodotti tessili, potenziandola attraverso lavorazioni ad hoc? Detto fatto: già da diversi anni il mercato propone indumenti vari “beachwear” che si proclamano anti-UV.

Il nostro primo test su questi prodotti risale addirittura al 2014. Già a quel tempo ci eravamo chiesti: non c’è il rischio che indossare questi capi induca ad abbassare la guardia sotto il sole, nella convinzione (errata) di essere completamente protetti da uno scudo invincibile? Una domanda lecita, visto che molti di questi capi speciali sono destinati ai bambini, i più vulnerabili agli UV. Il pericolo di essere meno attenti sul fronte protezione è reale, ma il problema più grave riscontrato era stato un altro: spesso il fattore di protezione (UPF) dichiarato in etichetta non corrispondeva – in negativo – a quello misurato in laboratorio, sollevando grosse criticità in tema di sicurezza. Colpa di alcuni produttori poco attenti, avevamo detto, ma soprattutto dell’assenza di una precisa regolamentazione sul doppio fronte delle etichette e degli standard per calcolare l’UPF.

A distanza di quasi dieci anni, questo buco normativo non è stato colmato. Ancora oggi i produttori sono liberi di scegliere se e quale standard utilizzare: i più blandi protocolli ISO EN13758-2 e australiano, che testano l’UPF solo su capi nuovi e asciutti, o il più severo UV 801, che lo calcola anche su fibra bagnata e sottoposta a vari stress che ne simulano l’uso. La protezione solare tende a diminuire quando il tessuto è bagnato e in proporzione al livello di usura. Per questo chiediamo ancora una volta che lo standard UV 801 diventi subito obbligatorio per tutti i capi che si definiscono anti-UV e per questo noi lo utilizziamo nelle nostre prove di laboratorio.

Un’arma in più (se funziona)

Capi utili, inutili o controproducenti?

  • Utili a determinate categorie di persone e in certi frangenti per rinforzare la protezione contro gli UV;
  • inutili se l’obiettivo è evitare creme e gel solari;
  • controproducenti se si indossa una maglietta con UPF dichiarato 50+ e UPF 10 misurato.

In particolare, i capi anti-UV possono rappresentare una buona protezione aggiuntiva (occhio a non scordare la crema sulle zone scoperte) per i bambini che passano le giornate in spiaggia, per gli sportivi che praticano attività all’aperto e per gli adulti dalla pelle sensibile che non rinunciano ai bagni di sole. A patto che il fattore di protezione dichiarato in etichetta sia reale e che riesca a mantenersi inalterato nel tempo. È esattamente quello che siamo andati a verificare in laboratorio, sottoponendo i 16 modelli del test a quattro batterie di prove, tutte accomunate da un paletto ben preciso: bocciatura automatica con un fattore di protezione rilevato inferiore a 40, ovvero l’UPF minimo per i “dispositivi di protezione individuale” di categoria I (DPI) marcati CE. L’UPF 40 offre protezione media, 50 alta, 50+ (indicato con 80) molto alta.

I risultatidel test

Quasi tutti i modelli superano la prova più “facile”, quella effettuata secondo il protocollo ISO su capi nuovi e asciutti. Solo Seabas naufraga con un inaccettabile UPF 10 (protezione inesistente).

I risultati più interessanti arrivano dalla seconda prova, condotta secondo il più rigoroso standard UV 801, cioè ricreando sei diversi scenari per simulare l’uso reale (combinando allungamento, abrasione, lavaggio, tessuto bagnato). Oltre la metà dei prodotti merita voti buoni (UPF maggiore di 40) o eccellenti (UPF 50+), a dimostrazione che qualche passo in avanti è stato compiuto rispetto al 2014, ma sei modelli vengono bocciati, la metà dei quali destinata ai bambini. E questo non va davvero bene.

Visto, poi, che il regolamento per i DPI prevede che i prodotti mantengano la loro funzione protettiva per tutto l’arco della loro esistenza, con l’ultima prova abbiamo misurato il grado di protezione del tessuto in varie simulazioni d’uso, dopo 5 e 10 lavaggi. I 9 modelli che avevano già superato in modo brillante le altre due prove escono vincenti dalla terza, mentre negli altri il potere protettivo si modifica. In Vaude addirittura aumenta dopo 10 lavaggi, ma in ogni caso non è ben progettato. A titolo di confronto, abbiamo inserito due t-shirt di cotone: passano la prova ISO ma non lo standard UV 810.

Le etichette

Le informazioni che accompagnano indumenti destinati a difendere la pelle, che chiamano cioè in causa la sicurezza, sono fondamentali. Oltre a quelle obbligatorie per legge (composizione e manutenzione, UPF per l’abbigliamento con il marchio CE), le etichette davvero complete riportano anche il riferimento allo standard usato per calcolare l’UPF, i consigli sugli effetti nocivi degli UV, la durata del capo. Tutte le etichette sono a norma, ma abbiamo voluto premiare quelle con informazioni aggiuntive. Quest’anno abbiamo considerato anche la sostenibilità del tessuto, premiando i modelli che usano fibre riciclate.

LEGGI L'ARTICOLO COMPLETO CON I RISULTATI DEL TEST

Leggi anche il nostro articolo sulle acque solari: non contenendo alcun filtro di protezione e, attenuando la sensazione di caldo, favoriscono la sovraesposizione al sole. Prova inoltre il nostro calcolatore che ti dice quale sia il tuo fototipo