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Vitamina D: quando serve integrarla

Qual è il livello nel sangue che può considerarsi normale? È sufficiente quella che produciamo naturalmente? Negli anziani previene le fratture? A chi può essere prescritta gratuitamente? Ecco tutte le risposte ai dubbi più frequenti sulla vitamina D.

04 aprile 2024
Vitamina D

Una panacea per tutti i mali, dalle malattie neurodegenerative al cancro. È l’immeritata fama di cui gode la vitamina D, che nel giro di pochi anni si è ritrovata ammantata da innumerevoli effetti benefici che vanno ben oltre la salute delle ossa. Eppure anche in quest’ultimo caso non è sempre bene assumerla: ve lo spieghiamo in questo dossier in cui rispondiamo ai dubbi più comuni, partendo da quali sono i livelli di vitamina D considerabili normali, a quando è davvero utile assumerla, arrivando alle più recenti regole di prescrizione stabilite dall’Agenzia italiana del farmaco.

infografica sull'utilità della vitamina D

Il sole “buono” per la salute delle ossa

La vitamina D, come il calcio (scopri tutti i benefici del calcio), svolge un ruolo importante per la salute delle ossa: stimola a livello intestinale l’assorbimento di calcio e fosforo, utili a mantenere la giusta densità ossea. In questo modo, la vitamina D contribuisce a proteggere le ossa dalla demineralizzazione che le rende fragili e prone alla frattura per traumi anche lievi e inavvertiti.  La vitamina D che possiamo assumere con gli alimenti – inclusi quelli che ne contengono di più: fegato di merluzzo, pesci grassi (salmone) e pesce azzurro – è limitata. Ci viene in soccorso l’esposizione al sole. Infatti, i raggi UV (per la precisione UVB) che ci permettono di sintetizzare a livello della cute la vitamina D, che poi viene immagazzinata nel tessuto adiposo e nel fegato e rilasciata all’occorrenza. Secondo la raccomandazione corrente d’estate è sufficiente esporre quotidianamente braccia, décolleté e gambe per 10-15 minuti a metà mattina o metà pomeriggio, evitando le ore di picco dei raggi UV, mentre d’inverno è necessario esporsi più a lungo (30 minuti), preferibilmente attorno a mezzogiorno. In realtà non esiste una regola valida per tutti: dipende dal tipo e dal colore della pelle, e da quanta ne esponiamo al sole. D’inverno bisogna sfruttare tutte le occasioni, perché le parti del corpo che rimangono scoperte sono limitate. D’estate, se prendiamo il sole “incidentalmente” e per poco tempo, per esempio mentre si fa una commissione, non è necessario mettere la crema solare. Se invece l’esposizione è prolungata — e più estesa, come avviene in spiaggia -, allora l’uso della crema solare è d’obbligo. L’esposizione solare quotidiana è quindi utile a fare scorta di vitamina D da fine marzo e fine settembre, ma questo vale soprattutto per i soggetti più giovani. Nelle persone più in là col l’età (over 60) e negli anziani la sintesi della vitamina D a livello della cute non è altrettanto efficiente. Ciò significa che a parità di esposizione al sole, la pelle delle persone più anziane non è altrettanto in grado di produrre adeguate quantità di vitamina D e la supplementazione potrebbe essere necessaria per raggiungere livelli ematici di vitamina D normali. 

Quali sono i valori normali di vitamina D?

Ma qual è il livello di vitamina D nel sangue che può considerarsi normale? Si tratta di un’informazione cruciale, perché è in base a tale riferimento che si decide se è necessaria un’integrazione, e di conseguenza anche quando fermarsi, prima che la supplementazione diventi eccessiva, e quindi nociva. Purtroppo, su questo punto la comunità scientifica non è mai stata concorde, tant’è che l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), nel definire il livello di concentrazione sufficiente a mantenere in salute le ossa, ha sempre indicato una forchetta di valori molto ampia, cioè 20-40 ng/ml.

In teoria, un intervallo così dilatato permetterebbe di fare rientrare nella normalità un numero maggiore di situazioni, nella pratica molte persone vengono etichettate come carenti, in quanto diverse società scientifiche tuttora considerano sufficiente il valore di mezzo, cioè 30 ng/ml. In alcuni casi, propongono addirittura livelli di valori «desiderabili» o «ideali» ancora più alti. Se lo facessero tutti, l’asterisco che evidenzia l’anomalia riguardo alla vitamina D comparirebbe sugli esami del 90% della popolazione generale. Tra l’altro, considerare come “non sufficienti” valori che invece lo sono suscita ansia in chi, notando l’anomalia sul referto, crede che la propria salute sia esposta a chissà quali rischi.

Lo scenario è però cambiato, in quanto alla luce di tutti gli studi prodotti finora e di quelli più recenti l’AIFA ha stabilito che la soglia al di sotto del quale si può considerare davvero carente la vitamina D è di 12 ng/ml. Questo valore va interpretato non come un indicatore di malattia, ma come il limite al di sotto del quale aumenta il rischio di sviluppare problemi scheletrici.

Una soglia discussa da tempo

Questo valore non è di certo nuovo: si dibatte da anni dei normali livelli della vitamina D, ma una poco rigorosa valutazione degli studi epidemiologici ha nel tempo portato ad un progressivo innalzamento della soglia di normalità, con l’effetto di attribuire l’etichetta di “carenti” a livelli di vitamina D nel sangue assolutamente adeguati. Con la recente revisione della Nota 96 (di cui parliamo ampiamente più avanti) il valore di 20 ng/ml, prima erroneamente considerata la soglia della carenza, torna ad essere un valore più che adeguato per la popolazione sana, oltre il quale non si prospettano reali benefici. La soglia di 12 ng/ml va oggi considerata come il livello al di sotto del quale valutare l’integrazione in persone sane, in presenza o assenza di sintomi muscoloscheletrici, mentre per persone con determinate condizioni di salute, l’integrazione va considerata anche a livelli più elevati a seconda del caso, tutte delineate nella nota 96.

Ecco perché non è innocua

Adottando soglie di normalità ingiustificatamente alte, si legittimano trattamenti a base di vitamina D che sono invece inappropriati, con l’errato presupposto che la vitamina D sia innocua, e qualora fosse assunta in eccesso non si correrebbero rischi. Questo naturalmente non è vero: anche se avviene solo di rado, la vitamina D a certi livelli può diventare tossica. Sopra i 100 ng/ml - che si può raggiungere assumendo indiscriminatamente integratori in vendita liberamente, anche online - si può andare incontro all’ipercalcemia (alta concentrazione di calcio nel sangue) e a sintomi come sete e urine molto abbondanti (poliuria). L'aumentata eliminazione di calcio con le urine può accrescere il rischio di calcoli renali. Se poi nel sangue si raggiungono livelli molto più alti, cioè 200 ng/ml, si rischiano conseguenze ben più gravi, come convulsioni, coma e (raramente) morte. Non bisognerebbe superare neppure i 50 ng/ml, perché già sopra questo livello si riscontra un aumento della mortalità e del rischio di cancro al pancreas e alla prostata. L’assunzione di alte dosi per lunghi senza raggiungere livelli definibili “tossici” può addirittura aumentare il rischio di frattura.

L’età avanzata non basta

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un vero e proprio boom della vitamina D, sia sotto forma di integratori sia di farmaci. Basti pensare che a livello nazionale la spesa pubblica per questa voce in dodici anni è più che decuplicata, passando dai 24 milioni di euro del 2006 a oltre 273 milioni del 2018. L’esplosione non è dovuta solo all’innalzamento della soglia considerata normale, ma al fatto che sono molte le malattie in cui si è osservata una carenza di vitamina D. Da qui l’equivoco che la vitamina D potesse giocare un ruolo nella loro insorgenza. In realtà, gli studi suggeriscono che in quasi tutti i casi la carenza di questa vitamina è una conseguenza della malattia e non una causa. Motivo per cui non si evidenziano benefici nei pazienti trattati con la vitamina, anzi in certi casi si possono avere effetti negativi. Inoltre, poiché con l’età la concentrazione di vitamina D nel sangue tende a diminuire, potrebbe sembrare sensate prescriverla agli anziani per migliorare il loro stato di salute. Purtroppo, non è così, gli studi scientifici evidenziano che assumerla non porta a miglioramenti su pressione arteriosa, fratture, prestazioni fisiche, capacità cognitive e frequenza di infezioni. In definitiva, il solo fatto di essere anziani non rende utile né opportuna l’assunzione di vitamina D.

Anziani in strutture di riposo

Allora, quando è corretto prescrivere agli anziani la vitamina D? Solo quando sono ricoverati in una casa di riposo e quando soffrono di invalidità con deficit motori, condizioni, queste, che non consentono di esporsi al sole e neppure di fare sufficiente esercizio fisico (cioè le attività che rendono le ossa più sane). Negli anziani che invece non si trovano in una casa di cura, la somministrazione di vitamina D (associata o no al calcio) non si è dimostrata in grado di prevenire le fratture, né in chi soffre di osteoporosi né in chi ha già avuto fratture né tantomeno in chi non le ha mai avute in precedenza. La mancanza di vantaggi non si traduce purtroppo in una corrispondente mancanza di svantaggi, perché negli anziani cui è stata somministrata vitamina D si è osservato un aumento dei casi di calcoli renali. Insomma, meglio puntare sullo stile di vita, incentivando da sempre le sane abitudini: alimentazione varia ed equilibrata, giusta esposizione al sole e moderata attività fisica. Altrettanto importante è l’eliminazione dei fattori di rischio, non solo fumo e alcol, ma anche quelli fisici, per esempio gli elementi strutturali e d’arredo che in casa possono facilitare le cadute.

Altri casi in cui è raccomandata

Fermo restando che non bisogna mai assumere di testa propria nessun farmaco o integratore alimentare e che occorre averne preventivamente discusso con il proprio medico, ci sono altre persone e situazioni, oltre a quelle appena citate, per le quali è giustificata una terapia con vitamina D.:

  • I pazienti in cura con farmaci rimineralizzanti, usati per recuperare densità ossea in caso di osteoporosi.
  • I neonati prematuri e i bambini fino all’anno di età. E anche oltre, se c’è il rischio di rachitismo. La ragione è semplice: il latte materno non contiene quantità sufficienti di vitamina D.
  • Persone con carenza di vitamina D, associata a specifici sintomi: dolori muscolari, profonda stanchezza per periodi prolungati, ed eventualmente “iperparatiroidismo”, cioè l’eccessiva presenza nel sangue di paratormone, essenziale nel mantenimento di buoni livelli di calcio.

L’integrazione di vitamina può essere valutata anche in chi, pur non avendo le caratteristiche appena elencate, si riscontra una carenza (secondo i parametri determinati dalla Nota 96 dell’Aifa - vedi paragrafo successivo), e in chi è affetto da determinate malattie o prende farmaci che non ne consentono il suo corretto assorbimento. 

Menopausa e gravidanza

Esistono poi condizioni che possono portare a un abbassamento fisiologico di vitamina D nel sangue. È il caso della menopausa. Ma neppure stavolta la supplementazione con vitamina D si è rivelata utile, come dimostrano gli esiti di un recente studio condotto su donne sane di 55 anni con livelli di vitamina D superiori a 20ng/ml. Non si sono rilevati, infatti, né benefici sul piano del metabolismo osseo né su quello dell’aumento della massa ossea. L’integrazione si può rivelare utile, invece, quando i valori di vitamina D sono più bassi, cioè inferiori a 10-12 ng/ml. Per quanto riguarda la gravidanza, il quadro è più incerto, perché sulle donne incinte vengono fatti pochi studi, anche per motivi etici. Le linee guida dell’Istituto superiore di Sanità consigliano una valutazione caso per caso: la supplementazione potrebbe rivelarsi utile nelle donne appartenenti a gruppi a rischio carenza (donne asiatiche, africane, caraibiche, mediorientali) o che si espongono raramente al sole oppure che seguono un’alimentazione povera di vitamina D. La nota Aifa 96 consente comunque la prescrizione della vitamina D in regime di rimborso a donne in gravidanza e anche in allattamento, a prescindere dal livello di vitamina D nel sangue.

Più accortezza nelle prescrizioni

La “correzione” dei valori di vitamina D attraverso la somministrazione di integratori o farmaci non apporta benefici per la salute, se non in presenza di determinate condizioni e sintomi specifici, né è utile per prevenire il rischio di fratture nella popolazione generale, ma solo negli anziani che vivono in una casa di cura. Pertanto, la vitamina D non andrebbe mai assunta di testa propria.

Purtroppo, anche i medici spesso la prescrivono senza farsi troppi scrupoli. Questo fenomeno negli ultimi anni ha portato l’Aifa a redigere indicazioni di prescrizione più stringenti allo scopo di limitare le prescrizioni inappropriate, che non comportano benefici e gravavano comunque sulle tasche dei cittadini. L’Aifa ha rivisto non solo le norme di prescrizione ma ha soprattutto ridefinito i valori di normalità in maniera più aderente alle evidenze.

L’abbassamento della soglia di normalità ha fatto sì che gran parte di coloro che ricevevano il medicinale in regime di rimborso (cioè gratuitamente o col pagamento del solo ticket) non l'hanno più potuto avere tramite il servizio sanitario. Non si tratta però di una scelta di risparmio sulle spalle della salute dei cittadini, ma di una decisione dettata dall’assicurare cure più appropriate ai cittadini. Per questo motivo è importante che la prescrizione e la spesa non si scarichi sui cittadini, perché esiste il rischio che la prescrizione (di farmaci o integratori di vitamina D) continui, pagata però dai cittadini. La misura di Aifa ha avuto invece l’obiettivo di  indurre prescrizioni più appropriate, in linea con le migliori prove di efficacia.

Le nuove regole per la prescrizione in regime di rimborso

L’aggiornamento della Nota Aifa n° 96 pubblicato a febbraio 2023 ha rideterminato i livelli di vitamina D considerati carenti e le condizioni in cui è opportuno prescrivere la vitamina D in regime di rimborso (cioè pagando eventualmente solo il ticket).

Secondo i dati riporti dall’Agenzia, i risultati degli studi più recenti depongono a favore di una modesta riduzione del rischio di frattura, che diventa addirittura dubbia nelle persone sane (anziani compresi). All’interno di uno degli studi più ampi e più recenti - lo studio VITAL, che ha incluso quasi 26.000 persone, maschi e femmine sani, senza fattori di rischio per l’osteoporosi, con almeno 50 anni d’età –la somministrazione di vitamina D per 5,3 anni è risultata inefficace nel ridurre il rischio di frattura, sia nelle persone con livelli di vitamina D adeguati o più che adeguati, sia in soggetti considerati carenti (vit D inferiore a 20 ng/ml) e molto carenti (vit D inferiore a 12 ng/ml). Questi dati di chiara inefficacia della supplementazione in persone con bassi livelli di vitamina D nel sangue – secondo AIFA – mettono in discussione la somministrazione di vitamina D sulla base del solo riscontro della carenza. Conclusioni analoghe si osservano nello studio DO-HEALTH in cui la somministrazione di vitamina D ad anziani over70 per 3 anni non ha ridotto il rischio di fratture non vertebrali.

Per questo motivo, oggi, la prescrizione della vitamina D in regime di rimborso è possibile solo per livelli di vitamina più bassi di quanto considerati normali fino a ieri (vale a dire 12 ng/ml e non più 20 ng/ml). Le condizioni per cui è indicata la prescrizione in regime SSN sono:

  1. Soggetti carenti, cioè con livelli di sierici di 25(OH)D (la forma della Vitamina D misurata nel sangue) inferiori a 12 ng/ml (o inferiori a 30 nmol/L) indifferentemente dalla presenza di sintomi ipovitaminosi quali astenia, mialgie, dolori diffusi, frequenti cadute immotivate.
  2. Soggetti con malattie che provocano malassorbimento; che comportano l’assunzione di farmaci che interferiscono con il metabolismo della vitamina D; soggetti affetti da osteoporosi o da malattie dell’osso trattabili con terapia remineralizzante; in soggetti affetti da iperparatiroidismo primario o secondario. In tutti questi casi, la prescrizione è indicata solo dopo il riscontro di determinali valori ematici di vitamina D. Vedasi la Nota 96 per informazioni dettagliate. 
  3. Persone ricoverate in RSA e persone affette da gravi deficit motori o allettati al proprio domicilio, a prescindere dal livello di vitamina D nel sangue.
  4. Donne in gravidanza e allattamento, a prescindere dal livello di vitamina D nel sangue.
  5. Persone affette da osteoporosi (dovuta a qualsiasi causa) non candidate a terapia remineralizzante.

Da evitare i controlli di routine della vitamina D

Controllare sistematicamente o solo per capriccio qual è il livello di vitamina D nel sangue, con l’intento di scoprire precocemente un’eventuale carenza, e quindi di correggerla, non è utile ed è sconsigliato dalle autorità sanitarie. C’è il rischio di vedersi prescrivere cure inutili, che possono rivelarsi persino dannose.

Quando ha senso misurare la vitamina D nel sangue?

Insieme alle nuove regole di prescrizione, l’Agenzia italiana del farmaco ha fornito indicazioni rispetto a quando dosare la vitamina D nel sangue allo scopo di verificare un’eventuale carenza.

Il dosaggio risulterebbe inappropriato in assenza di queste condizioni:

  • Sintomi persistenti (almeno uno) che suggeriscono carenza di vitamina D, quali dolore in sedi ossee o dolore lombosacrale, pelvico o agli arti inferiori; senso di impedimento fisico; dolori o debolezza muscolare (anche di grado elevato) soprattutto ai quadricipiti ed ai glutei con difficoltà ad alzarsi da seduto o andatura ondeggiante; propensione alle cadute immotivate.
  • È prevista una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D (ed es. antiepilettici, glucocorticoidi, anti-retrovirali, anti-micotici, colestiramina, orlistat etc.) oppure esiste una condizione di malassorbimento (ad es. fibrosi cistica, celiachia, m. Crohn, chirurgia bariatrica, etc.).
  • Esiste una patologia ossea accertata (osteoporosi, osteomalacia, malattia di Paget, osteogenesi imperfetta) che necessita di terapia remineralizzante.
  • Esiste un valore elevato di paratormone.

Per quanto riguarda i controlli, una verifica periodica del livello di vitamina D nel sangue – secondo Aifa – non è raccomandata. Un controllo può essere utile in caso di modifiche del quadro clinico o terapeutico.

Vitamina D e covid: nessun legame

Nella revisione della nota 96 si dà spazio anche al tema del Covid-19, più volte collegato alla carenza di vitamina D. Stando alla vulgata corrente nei mesi più intensi della pandemia, la vitamina D avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella prevenzione del Covid-19 e, in caso di carenza, nel determinare gli esiti più gravi della malattia. Secondo una suggestiva ipotesi, mai dimostrata, sarebbe stata la (presunta) carenza di vitamina D nella popolazione anziana del Nord Italia — colpa di uno stile di vita più sedentario e della scarsa esposizione al sole — a contribuire alla maggiore incidenza di morti in questa area del Paese. Eppure l’utilità della vitamina D nella lotta al Covid è stata smentita da studi condotti appositamente, in cui la vitamina D si è dimostrata inefficace nel proteggere i sani dal contagio e di ridurre la durata del ricovero o il rischio di esiti gravi nei malati ospedalizzati.

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